27-05-2015 – di Silvio Brachetta

La Santa Sede si è pronunciata sull’«ideologia del genere» – o del «gender» – dagli anni Novanta, non appena la questione si è mutata da semplice teoria psicologica e filosofica in programma globale, nella politica e nella società. I problemi legati al «gender» sono sorti, infatti, da quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) ha promosso una serie ininterrotta d’iniziative, a livello mondiale, per trasformare l’ipotesi scientifica che sgancia totalmente il genere sessuale biologico da quello psicologico in prassi da imporre ai governi nazionali.

La Conferenza mondiale di Pechino sulle donne (1995) – quarta di una serie d’iniziative dell’Onu a favore della condizione femminile – ha indicato apertamente come centrale la categoria del sesso, per rivendicare la legittimità di porre la figura femminile su un piano di parità rispetto a quella maschile. Ovvero la donna potrebbe e dovrebbe rivendicare l’uguaglianza dei diritti e delle opportunità sociali, non in quanto persona, non in quanto essere umano di dignità pari all’uomo, ma in quanto femmina, travolgendo così la naturale e necessaria differenza tra maschi e femmine.

Si tratterebbe allora, secondo l’Onu, di rivendicare l’uguaglianza sulla base di una differenza congenita tra individui: è come dire che il quadrato e il cerchio sono uguali, non perché splendide figure piane e prodigi della matematica, ma per la loro forma geometrica. In questo – e non nella legittima esigenza della dignità femminile – sta la superficialità e il difetto primario di tutta l’operazione legata al genere.

L’ideologia del genere cancella la differenza sessuale

Nella Dichiarazione finale di Pechino si legge, ad esempio, di «valorizzazione della differenza di genere», sdoganando così ufficialmente il concetto di genere a livello politico e sociale. Secondo i relatori del documento, l’uguaglianza dei diritti, lo sviluppo e la pace si possono e si devono perseguire finanziando, ad esempio, «gli studi e le ricerche di genere a tutti i livelli dell’istruzione, soprattutto ai livelli di specializzazione universitaria, e applicarli allo sviluppo dei programmi di studio, compresi programmi di studio universitari, libri di testo e supporti didattici, e nella formazione di insegnanti» (n. 83). S’intravvede, in tale iniziativa, la matrice di tutti i tentativi attuali d’inculcare la mentalità del gender già nelle scuole dell’obbligo e finanche negli asili, come oggi del resto avviene pure in Italia. Molti governi nazionali, infatti, hanno recepito in modo normativo quanto prescritto dagli organismi dell’Onu, in merito a questo e ad altri programmi analoghi.

Sempre nella Dichiarazione, neppure il settore economico è lasciato immune dall’indottrinamento al gender: si prevede di favorire in esso «la parità tra i sessi, attraverso la promozione di studi sulle donne (women’s studies), avvalendosi dei risultati degli studi e delle ricerche di genere» (n. 175). E lo stesso paragrafo include anche i settori scientifico e tecnologico. Eppure, nonostante i molti riferimenti al genere, la Dichiarazione di Pechino fa ancora riferimento alla «differenza» tra i generi maschile e femminile, insistendo sul rimarcare la necessità di un’analisi sulla diversità sessuale. Ma in questo modo, che solo in apparenza sembra confermare l’unicità del genere, viene introdotta e rafforzata in modo subdolo un’ideologia perniciosa: gli studi di genere – com’è noto – che vorrebbero essere inseriti in ogni ambito della società, non rimarcano affatto ma, viceversa, appiattiscono ogni diversità tra i sessi, imponendo la convinzione che il sesso abbia infinite sfumature e possa essere scelto a piacere, su criteri esclusivamente soggettivi.

Esortando allora al gender, l’Onu non punta affatto al rilancio della femminilità come valore specifico e distinto, ma spalanca la porta a una proterva ideologia che presume di cancellare la sessualità, consegnandola di fatto a un indistinto calderone anarco-libertario.

Primi pronunciamenti della Chiesa

E quindi la Santa Sede nel 1995 si trovò a dover chiarire, a ridosso della Conferenza di Pechino, quale fosse il significato che la Chiesa avrebbe dato alla parola «genere», per evitare successivi equivoci circa la posizione dei cristiani cattolici in seno alla questione. La Segreteria di Stato Vaticano – Stato non membro dell’Onu, ma Osservatore permanente – dichiarò di accettare la parola «genere» solo nel significato di «identità biologica-sessuale, maschile e femminile» ed escludendo, allo stesso tempo, «interpretazioni dubbie basate su concezioni molto diffuse, che sostengono che l’identità sessuale può adattarsi indefinitamente, per adeguarsi a nuove e diverse finalità». Da subito, quindi, la Santa Sede accettò l’uso del termine «genere» solo come contrazione di «genere maschile» e «genere femminile», respingendo qualsiasi utilizzo che potesse dissociare la sessualità biologica da quella psicologica, come invece prevede la «teoria del genere».

Nel 1998 c’è invece un primo riferimento diretto al «gender», come «ideologia», nelle Conclusioni del “Secondo incontro dei responsabili politici e legislatori d’Europa”, promosso dal Pontificio Consiglio per la Famiglia (Pcf). L’«ideologia del gender» è qui posta come un tentativo di «alterare i diritti dell’uomo» e come ispiratrice diretta di preoccupanti «derive» etiche, tra cui «il suicidio assistito, lo sviluppo dell’omosessuale e della pedofilia» (n. 3.3).

E poi ancora, nel 1999, il Pcf pubblicava “Famiglia e diritti umani”, in cui l’«ideologia del gender» era presentata come una sorta d’«ideologia del sesso», per la quale «il ruolo dell’uomo e della donna nella società sarebbe soltanto il prodotto della storia e della cultura». L’essere umano dunque, secondo questo pensiero, «sarebbe libero di scegliere l’orientamento sessuale che preferisce, qualunque sia il suo sesso biologico». Non solo – specifica il documento – ma «tale ideologia afferma tra l’altro che la forma maggiore di oppressione è l’oppressione della donna da parte dell’uomo, e tale oppressione è istituzionalizzata nella famiglia monogamica», per cui «gli ideologi concludono che, per porre termine a tale oppressione, bisogna porre termine alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico». La questione del genere, secondo il Pcf, sarebbe quindi un pretesto per distruggere la famiglia. Gli ideologi, infatti, sostengono che matrimonio e famiglia, «radicati nell’unione eterosessuale, sarebbero prodotti di una cultura apparsi in un momento primordiale della storia, ma che devono sparire affinché la donna possa liberarsi ed occupare il posto che le spetta nella società produttiva» (n. 74).

Armonia tra la sessualità biologica e quella culturale

Più estesa è la trattazione del gender in “Famiglia, Matrimonio e «unioni di fatto»” (2000), a cura del Pcf. Si specifica che l’ideologia del gender fa parte di un «processo che potremmo denominare di graduale destrutturazione culturale e umana dell’istituzione matrimoniale», proprio perché «l’essere uomo o donna non sarebbe determinato fondamentalmente dal sesso, bensì dalla cultura» (n. 8). È interessante notare che il documento non nega affatto che nella persona umana esista un’«identità di genere», parallela a quell’«identità sessuale» che l’individuo sviluppa come «coscienza di identità psico-biologica del proprio sesso e della differenza rispetto all’altro sesso». L’«identità di genere» esiste e corrisponde all’azione reale della società sull’individuo, che forma la sua identità psico-sociale e culturale sulla base di ruoli sociali maschili o femminili già presenti in ogni civiltà.

Quando l’identità sessuale si sviluppa in armonia con l’identità di genere, si realizza quella «pienezza della verità interiore della persona» tanto necessaria, sia per la vicenda storica nel secolo, sia per il destino eterno di salvezza al quale è chiamato ogni uomo. Ma l’identità di genere si trasforma in ideologia di genere – afferma il Pcf – quando l’interazione tra la comunità e l’individuo diventa un assoluto e si nega ogni sviluppo della sessualità che non sia imposto dalla società. Questa imporrebbe artificialmente (secondo gl’ideologi) ruoli maschili e femminili mediante quelli che oggi sono genericamente chiamati «stereotipi di genere».

I pronunciamenti dei Pontefici

Dopo che nel 2004 la Congregazione per la Dottrina della Fede, in “Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”, ribadiva l’insegnamento del Pcf, negando la legittimità che una persona potesse o dovesse «modellarsi a suo piacimento», interveniva quattro anni dopo Benedetto XVI, in un Discorso alla Curia romana: il Pontefice dichiarava che il «gender» si risolve spesso «nell’autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore». E il «disprezzo» verso il Creatore si risolverebbe solo nell’«autodistruzione dell’uomo».

Più esplicitamente ancora, Benedetto XVI contestò la celebre affermazione di Simone de Beauvoir – «Donna non si nasce, lo si diventa» – nel 2012, durante il Discorso natalizio. Il Santo Padre evidenziò l’evidenza della «profonda erroneità» e della «rivoluzione antropologica» nascoste nel lemma «gender». Secondo tale errore, «l’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano». Nega cioè «la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela».

Papa Francesco si è riferito al gender in due occasioni. Il 22 marzo 2015, durante l’incontro con i Giovani a Napoli, aveva definito la teoria del gender «uno sbaglio della mente umana che fa tanta confusione». E, successivamente, all’Udienza del mercoledì (del 15 aprile 2015), si è domandato se la «cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale, perché non sa più confrontarsi con essa».

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