Fare il medico ad Aleppo: la propria vita per curare. Emile Katti, direttore dell’ ospedale Al Rajaa: «Io resto. Ma l’ embargo ci mette in ginocchio»

Avvenire
(Andrea Avveduto) «I medici migliori che avevo sono scappati, e quelli che sono rimasti con me non prendono lo stipendio da mesi. I macchinari si guastano spesso a causa di improvvisi blackout e durante i bombardamenti, negli ultimi due anni di guerra, ho rischiato la vita almeno quattro volte». Eppure rimane lì, in prima linea, il dottor Emile Katti. Da 23 anni dirige ad Aleppo l’ ospedale “Al Rajaa”, che in italiano significa “La speranza”. È uno dei tre ospedali funzionanti nel nord della Siria. Situato nella parte controllata dal regime di Assad e proprietà della Custodia di Terra Santa, è forse l’ unica speranza per i civili di Aleppo colpiti dalla guerra. Solo l’ anno scorso l’ ospedale ha offerto le cure mediche a più di mille pazienti al mese. E senza badare alla religione o alla provenienza. «Non chiediamo mai se sono civili o militari, cristiani o musulmani». Ad Aleppo manca spesso l’ elettricità e per operare è necessario utilizzare i generatori elettrici a gasolio. «Però – denuncia – è l’ embargo internazionale che ci sta mettendo in ginocchio». Le difficoltà legate alle sanzioni sono insostenibili. Da qualche anno, in base al documento del Consiglio Europeo firmato il 31 maggio 2013, sono vietati i versamenti bancari dall’ Europa a conti correnti siriani. E senza fondi adeguati «acquistare le macchine per le radiografie o gli strumenti essenzia- li è diventata un’ impresa». Alcuni grossi macchinari vengono comperati in Germania grazie alla mobilitazione della solidarietà internazionale, ma per giungere a destinazione la strada è lunga e accidentata.
Il trasporto aereo è impensabile, e la via del mare è l’ unica che può essere percorsa. L’ embargo emanato dalle Nazioni Unite prevede alcune eccezioni di trasporto per motivi umanitari, ma «le navi che contengono i macchinari possono comunque essere bloccate in ogni Paese in cui effettuano lo sbarco». Questo accade perché ogni governo, a pro- pria discrezione, può decidere cosa fare. Aggiunge il chirurgo di Aleppo: «In queste condizioni, chi può realmente verificare se la destinazione di quel macchinario è un ospedale che aiuta tutti o una struttura popolata da terroristi?». E perciò si dubita di tutti, si dubita su tutto. A volte, forse, malignamente. E la guerra, dai campi di battaglia, si sposta nel terreno più subdolo e insidioso dell’ ostruzionismo. Nel migliore dei casi, prima che il macchinario giunga e destinazione, occorrono due o tre mesi. Intanto però la gente continua a morire. «A volte arrivano anche 40 bambini al giorno, feriti dai missili o dalle bombe. E non abbiamo mai meno di 10 o 15 interventi chirurgici al giorno». Però, se le domande sull’ inutilità delle sanzioni non hanno ancora trovato risposta, la macchina della solidarietà internazionale si è mossa subito per limitare i danni dell’ embargo. «Grazie all’ Associazione pro Terra Sancta – continua il chirurgo aleppino – siamo riusciti finalmente a installare nuovi macchinari e a comprare i medicinali essenziali».
Negli ultimi mesi, a bordo dei camion, sono arrivati un generatore elettrico, un regolatore di energia elettrica, respiratori elettronici e apparecchi di anestesia, assieme a una macchina per l’ angiografia. «La situazione però ormai è insostenibile. La gente di Aleppo vuole la pace, è stanca di questa guerra che ormai ha distrutto tutto quello che poteva distruggere ». E tuttavia, dentro una quotidianità drammatica e precaria, Katti non si rassegna: «La speranza resiste». Non parla solo del “suo” ospedale. E i suoi pazienti lo sanno bene. Come quel ragazzo musulmano, arrivato nella struttura con due pallottole sul torace. I medici lo hanno curato, senza esitazione, pur sapendo che non avrebbe mai potuto sostenere le spese dell’ intervento. Uscendo, si è voltato indietro. «Mi avete salvato la vita, senza chiedermi nulla in cambio. Il vostro modo di fare la carità è speciale. Voi siete diversi».