Signor Direttore Generale,
Distinte Autorità,
Signore e Signori,
Ringrazio per l’invito e le parole di benvenuto del Direttore Generale, Prof. José Graziano da Silva, e rivolgo un caloroso saluto ai Rappresentanti degli Stati Membri e a quanti hanno la possibilità di collegarsi dalle sedi della FAO nel mondo.
Un saluto particolare va ai Ministri dell’Agricoltura del G7 qui presenti, che hanno concluso il loro Vertice, nel quale sono state discusse questioni che richiedono una responsabilità non solo verso lo sviluppo e la produzione, ma anche nei confronti della Comunità internazionale nel suo insieme.
1. La celebrazione di questa Giornata Mondiale dell’Alimentazione ci vede qui radunati per ricordare quel 16 ottobre del 1945 quando i Governi, decisi ad eliminare la fame mediante lo sviluppo del settore agricolo, istituirono la FAO. Era quello un periodo di grave insicurezza alimentare e di grandi spostamenti di popolazione, con milioni di persone alla ricerca di luoghi in cui poter sopravvivere alle miserie e alle avversità causate dalla guerra.
Dunque, riflettere su come la sicurezza alimentare può incidere sulla mobilità umana significa ripartire dall’impegno per cui la FAO è nata, per rinnovarlo. La realtà odierna domanda una maggiore responsabilità a tutti i livelli non solo per garantire la produzione necessaria o l’equa distribuzione dei frutti della terra – questo dovrebbe essere scontato – ma soprattutto per tutelare il diritto di ogni essere umano a nutrirsi a misura dei propri bisogni, partecipando altresì alle decisioni che lo riguardano e alla realizzazione delle proprie aspirazioni, senza doversi separare dai propri cari.
Di fronte a un obiettivo di tale portata è in gioco la credibilità dell’intero sistema internazionale. Sappiamo che la cooperazione è sempre più condizionata da impegni parziali, che addirittura limitano ormai anche gli aiuti nelle emergenze. Eppure la morte per fame o l’abbandono della propria terra è notizia quotidiana, che rischia di provocare indifferenza. E’ urgente dunque trovare nuove strade, per trasformare le possibilità di cui disponiamo in una garanzia che consenta ad ogni persona di guardare al futuro con fondata fiducia e non solo con qualche desiderio.
Lo scenario delle relazioni internazionali mostra una capacità crescente di dare risposte alle attese della famiglia umana, anche con l’apporto della scienza e della tecnica, le quali, studiando i problemi, propongono soluzioni adeguate. Eppure questi nuovi traguardi non riescono ad eliminare l’esclusione di gran parte della popolazione mondiale: quante sono le vittime della malnutrizione, delle guerre, dei cambiamenti climatici? Quanti mancano del lavoro e dei beni essenziali e si vedono costretti a lasciare la loro terra, esponendosi a molte e terribili forme di sfruttamento? Valorizzare la tecnologia al servizio dello sviluppo è certamente una strada da percorrere, purché si arrivi ad azioni concrete per diminuire gli affamati o per governare il fenomeno delle migrazioni forzate.
2. La relazione tra fame e migrazioni può essere affrontata solo se andiamo alla radice del problema. A questo proposito, gli studi condotti dalle Nazioni Unite, come pure da tante Organizzazioni della società civile concordano nel dire che sono due gli ostacoli principali da superare: i conflitti e i cambiamenti climatici.
Come si possono superare i conflitti? Il diritto internazionale ci indica i mezzi per prevenirli o risolverli rapidamente, evitando che si prolunghino e producano carestie e la distruzione del tessuto sociale. Pensiamo alle popolazioni martoriate da guerre che durano ormai da decenni e che potevano essere evitate o almeno fermate, e invece propagano i loro effetti disastrosi tra cui l’insicurezza alimentare e lo spostamento forzato di persone. Occorrono buona volontà e dialogo per frenare i conflitti, e bisogna impegnarsi a fondo per un disarmo graduale e sistematico, previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, come pure per porre rimedio alla funesta piaga del traffico delle armi. A che vale denunciare che a causa dei conflitti milioni di persone sono vittime della fame e della malnutrizione, se non ci si adopera efficacemente per la pace e il disarmo?
Quanto ai cambiamenti climatici, ne vediamo tutti i giorni le conseguenze. Grazie alle conoscenze scientifiche, sappiamo come i problemi vanno affrontati; e la comunità internazionale è andata elaborando anche strumenti giuridici necessari, come per esempio l’Accordo di Parigi, dal quale, però, alcuni si stanno allontanando. Riemerge la noncuranza verso i delicati equilibri degli ecosistemi, la presunzione di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta, l’avidità di profitto. E’ pertanto necessario lo sforzo per un consenso concreto e fattivo se si vogliono evitare effetti più tragici, che continueranno a gravare sulle persone più povere e indifese. Siamo chiamati a proporre un cambiamento negli stili di vita, nell’uso delle risorse, nei criteri di produzione, fino ai consumi che, per quanto riguarda gli alimenti, vedono perdite e sprechi crescenti. Non possiamo rassegnarci a dire “ci penserà qualcun altro”.
Penso che questi siano i presupposti di ogni discorso serio sulla sicurezza alimentare collegata al fenomeno delle migrazioni. Certamente guerre e cambiamenti climatici determinano la fame, evitiamo dunque di presentarla come una malattia incurabile. Le stime recenti fornite dai vostri esperti prevedono un rialzo della produzione globale di cereali, a livelli che consentono di dare maggiore consistenza alle riserve mondiali. Questo lascia ben sperare e fa capire che, se si opera stando attenti ai bisogni e contrastando le speculazioni, i risultati non mancano. Infatti, le risorse alimentari non di rado vengono lasciate in balìa della speculazione, che le misura solamente in funzione della prosperità economica dei grandi produttori o in relazione alla potenzialità di consumo e non alle esigenze reali delle persone. E così si favoriscono i conflitti e gli sprechi, e aumentano le file degli ultimi della terra che cercano un futuro fuori dai loro territori di origine.
3. Di fronte a tutto questo possiamo e dobbiamo cambiare rotta (cfr Enc. Laudato si’, 53; 61; 163; 202). Di fronte all’aumento della domanda di alimenti è indispensabile che i frutti della terra siano disponibili per tutti. Per qualcuno basterebbe diminuire il numero delle bocche da sfamare e risolvere così il problema; ma è una falsa soluzione se si pensa ai livelli di spreco di alimenti e a modelli di consumo che sprecano tante risorse. Ridurre è facile, condividere invece impone una conversione, e questo è impegnativo.
Pertanto mi pongo – e vi pongo – questa domanda: è troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia? In effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine “umanitario”, tanto in uso nell’attività internazionale. Amare i fratelli e farlo per primi, senza attendere di essere corrisposto: è questo un principio evangelico che trova riscontro in tante culture e religioni e diventa principio di umanità nel linguaggio delle relazioni internazionali. E’ auspicabile che la diplomazia e le Istituzioni multilaterali alimentino e organizzino questa capacità di amare, perché è la via maestra che garantisce non solo la sicurezza alimentare, ma la sicurezza umana nella sua globalità. Non possiamo operare solo se lo fanno gli altri, né limitarci ad avere pietà, perché la pietà si ferma agli aiuti di emergenza, mentre l’amore ispira la giustizia ed è essenziale per realizzare un giusto ordine sociale tra realtà diverse che vogliono correre il rischio dell’incontro reciproco. Amare vuol dire contribuire affinché ogni Paese aumenti la produzione e giunga all’autosufficienza alimentare. Amare si traduce nel pensare nuovi modelli di sviluppo e di consumo, e nell’adottare politiche che non aggravino la situazione delle popolazioni meno avanzate o la loro dipendenza esterna. Amare significa non continuare a dividere la famiglia umana tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario.
L’impegno della diplomazia ci ha dimostrato, anche in eventi recenti, che fermare il ricorso alle armi di distruzione di massa è possibile. Tutti siamo consapevoli della capacità di distruzione di tali strumenti. Ma siamo altrettanto consapevoli degli effetti della povertà e dell’esclusione? Come fermare persone disposte a rischiare tutto, intere generazioni che possono scomparire perché mancano del pane quotidiano, o sono vittime di violenza o di mutamenti climatici? Si dirigono dove vedono una luce o percepiscono una speranza di vita. Non potranno essere fermate da barriere fisiche, economiche, legislative, ideologiche: solo una coerente applicazione del principio di umanità potrà farlo. E invece diminuisce l’aiuto pubblico allo sviluppo e le Istituzioni multilaterali vengono limitate nella loro attività, mentre si ricorre ad accordi bilaterali che subordinano la cooperazione al rispetto di agende e di alleanze particolari o, più semplicemente, ad una tranquillità momentanea. Al contrario, la gestione della mobilità umana richiede un’azione intergovernativa coordinata e sistematica, condotta secondo le norme internazionali esistenti e permeata da amore e intelligenza. Il suo obiettivo è un incontro di popoli che arricchisca tutti e generi unione e dialogo, e non esclusione e vulnerabilità.
Qui permettetemi di collegarmi al dibattito sulla vulnerabilità che a livello internazionale divide quando si parla dei migranti. Vulnerabile è colui che è in condizione di inferiorità e non può difendersi, non ha mezzi, vive cioè una esclusione. E questo perché è costretto dalla violenza, da situazioni naturali o peggio ancora dall’indifferenza, dall’intolleranza e persino dall’odio. Di fronte a questa condizione è giusto identificare le cause per agire con la necessaria competenza. Ma non è accettabile, che per evitare di impegnarsi, ci si trinceri dietro a sofismi linguistici che non fanno onore alla diplomazia ma la riducono, da “arte del possibile”, a un esercizio sterile per giustificare egoismi e inattività.
E’ auspicabile che di tutto questo si tenga conto nell’elaborazione del Pacto mundial para una migración segura, regular y ordenada, in corso in questo momento in seno alle Nazioni Unite.
4. Prestiamo ascolto al grido di tanti nostri fratelli emarginati ed esclusi: “Ho fame, sono forestiero, nudo, malato, rinchiuso in un campo profughi”. È una domanda di giustizia, non una supplica o un appello di emergenza. È necessario un ampio e sincero dialogo a tutti i livelli perché emergano le soluzioni migliori e maturi una nuova relazione tra i diversi attori dello scenario internazionale, fatta di responsabilità reciproca, di solidarietà e di comunione.
Il giogo della miseria generato dagli spostamenti spesso tragici dei migranti, può essere rimosso mediante una prevenzione fatta di progetti di sviluppo che creino lavoro e capacità di riposta alle crisi climatiche e ambientali. La prevenzione costa molto meno degli effetti provocati dal degrado dei terreni o dall’inquinamento delle acque, effetti che colpiscono le zone nevralgiche del pianeta dove la povertà è la sola legge, le malattie sono in crescita e la speranza di vita diminuisce.
Sono tante e lodevoli le iniziative messe in atto. Tuttavia, non bastano; è necessario e urgente continuare ad attivare sforzi e finanziare programmi per fronteggiare in maniera ancora più efficace e promettente la fame e la miseria strutturale. Ma se l’obiettivo è favorire un’agricoltura che produca in funzione delle effettive esigenze di un Paese, allora non è lecito sottrarre le terre coltivabili alla popolazione, lasciando che il land grabbing (acaparamiento de tierras) continui a fare i suoi profitti, magari con la complicità di chi è chiamato a fare l’interesse del popolo. Occorre allontanare le tentazioni di operare a vantaggio di gruppi ristretti della popolazione, come pure di utilizzare gli apporti esterni in modo inadeguato, favorendo la corruzione, o in assenza di legalità.
La Chiesa Cattolica, con le sue istituzioni, , avendo diretta e concreta conoscenza delle situazioni da affrontare e dei bisogni da colmare, vuole concorrere direttamente in questo sforzo in virtù della sua missione che la porta ad amare tutti e la obbliga anche a ricordare a quanti hanno responsabilità nazionali e internazionali il più ampio dovere di condividere le necessità dei più.
L’augurio è che ciascuno scopra, nel silenzio della propria fede o delle proprie convinzioni, le motivazioni, i principi e gli apporti per dare alla FAO e alle altre Istituzioni intergovernative il coraggio di migliorare e perseverare per il bene della famiglia umana.
Grazie!
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Señor Director General,
Distinguidas autoridades,
Señoras y Señores:
Agradezco la invitación y las palabras de bienvenida que me ha dirigido el Director General, profesor José Graziano da Silva, y saludo con afecto a las autoridades que nos acompañan, así como a los Representantes de los Estados Miembros y a cuantos tienen la posibilidad de seguirnos desde las sedes de la FAO en el mundo.
Dirijo un saludo particular a los Ministros de agricultura del G7 aquí presentes, que han finalizado su Cumbre, en la que se han discutido cuestiones que exigen una responsabilidad no sólo en relación al desarrollo y a la producción, sino también con respecto a la Comunidad internacional en su conjunto.
1. La celebración de esta Jornada Mundial de la Alimentación nos reúne en el recuerdo de aquel 16 de octubre del año 1945 cuando los gobiernos, decididos a eliminar el hambre en el mundo mediante el desarrollo del sector agrícola, instituyeron la FAO. Era aquel un período de grave inseguridad alimentaria y de grandes desplazamientos de la población, con millones de personas buscando un lugar para poder sobrevivir a las miserias y adversidades causadas por la guerra.
A la luz de esto, reflexionar sobre los efectos de la seguridad alimentaria en la movilidad humana significa volver al compromiso del que nació la FAO, para renovarlo. La realidad actual reclama una mayor responsabilidad a todos los niveles, no sólo para garantizar la producción necesaria o la equitativa distribución de los frutos de la tierra ―esto debería darse por descontado―, sino sobre todo para garantizar el derecho de todo ser humano a alimentarse según sus propias necesidades, tomando parte además en las decisiones que lo afectan y en la realización de las propias aspiraciones, sin tener que separarse de sus seres queridos.
Ante un objetivo de tal envergadura lo que está en juego es la credibilidad de todo el sistema internacional. Sabemos que la cooperación está cada vez más condicionada por compromisos parciales, llegando incluso a limitar las ayudas en las emergencias. También las muertes a causa del hambre o el abandono de la propia tierra son una noticia habitual, con el peligro de provocar indiferencia. Nos urge pues, encontrar nuevos caminos para transformar las posibilidades de que disponemos en una garantía que permita a cada persona encarar el futuro con fundada confianza, y no sólo con alguna ilusión.
El escenario de las relaciones internacionales manifiesta una creciente capacidad de dar respuestas a las expectativas de la familia humana, también con la contribución de la ciencia y de la técnica, las cuales, estudiando los problemas, proponen soluciones adecuadas. Sin embargo, estos nuevos logros no consiguen eliminar la exclusión de gran parte de la población mundial: cuántas son las víctimas de la desnutrición, de las guerras, de los cambios climáticos. Cuántos carecen de trabajo o de los bienes básicos y se ven obligados a dejar su tierra, exponiéndose a muchas y terribles formas de explotación. Valorizar la tecnología al servicio del desarrollo es ciertamente un camino a recorrer, a condición de que se lleguen a concretar acciones eficaces para disminuir el número de los que pasan hambre o para controlar el fenómeno de las migraciones forzosas.
2. La relación entre el hambre y las migraciones sólo se puede afrontar si vamos a la raíz del problema. A este respecto, los estudios realizados por las Naciones Unidas, como tantos otros llevados a cabo por Organizaciones de la sociedad civil, concuerdan en que son dos los principales obstáculos que hay que superar: los conflictos y los cambios climáticos.
¿Cómo se pueden superarlos conflictos? El derecho internacional nos indica los medios para prevenirlos o resolverlos rápidamente, evitando que se prolonguen y produzcan carestías y la destrucción del tejido social. Pensemos en las poblaciones martirizadas por unas guerras que duran ya decenas de años, y que se podían haber evitado o al menos detenido, y sin embargo propagan efectos tan desastrosos y crueles como la inseguridad alimentaria y el desplazamiento forzoso de personas. Se necesita buena voluntad y diálogo para frenar los conflictos y un compromiso total a favor de un desarme gradual y sistemático, previsto por la Carta de las Naciones Unidas, así como para remediar la funesta plaga del tráfico de armas. ¿De qué vale denunciar que a causa de los conflictos millones de personas sean víctimas del hambre y de la desnutrición, si no se actúa eficazmente en aras de la paz y el desarme?
En cuanto a los cambios climáticos, vemos sus consecuencias todos los días. Gracias a los conocimientos científicos, sabemos cómo se han de afrontar los problemas; y la comunidad internacional ha ido elaborando también los instrumentos jurídicos necesarios, como, por ejemplo, el Acuerdo de París, del que, por desgracia, algunos se están alejando. Sin embargo, reaparece la negligencia hacia los delicados equilibrios de los ecosistemas, la presunción de manipular y controlar los recursos limitados del planeta, la avidez del beneficio. Por tanto, es necesario esforzarse en favor de un consenso concreto y práctico si se quieren evitar los efectos más trágicos, que continuarán recayendo sobre las personas más pobres e indefensas. Estamos llamados a proponer un cambio en los estilos de vida, en el uso de los recursos, en los criterios de producción, hasta en el consumo, que en lo que respecta a los alimentos, presenta un aumento de las pérdidas y el desperdicio. No podemos conformarnos con decir «otro lo hará».
Pienso que estos son los presupuestos de cualquier discurso serio sobre la seguridad alimentaria relacionada con el fenómeno de las migraciones. Está claro que las guerras y los cambios climáticos ocasionan el hambre, evitemos pues el presentarla como una enfermedad incurable. Las recientes previsiones formuladas por vuestros expertos contemplan un aumento de la producción global de cereales, hasta niveles que permiten dar mayor consistencia a las reservas mundiales. Este dato nos da esperanza y nos enseña que, si se trabaja prestando atención a las necesidades y al margen de las especulaciones, los resultados llegan. En efecto, los recursos alimentarios están frecuentemente expuestos a la especulación, que los mide solamente en función del beneficio económico de los grandes productores o en relación a las estimaciones de consumo, y no a las reales exigencias de las personas. De esta manera, se favorecen los conflictos y el despilfarro, y aumenta el número de los últimos de la tierra que buscan un futuro lejos de sus territorios de origen.
3. Ante esta situación podemos y debemos cambiar el rumbo (cf. Enc. Laudato si’, 53; 61; 163; 202). Frente al aumento de la demanda de alimentos es preciso que los frutos de la tierra estén a disposición de todos. Para algunos, bastaría con disminuir el número de las bocas que alimentar y de esta manera se resolvería el problema; pero esta es una falsa solución si se tiene en cuenta el nivel de desperdicio de comida y los modelos de consumo que malgastan tantos recursos. Reducir es fácil, compartir, en cambio, implica una conversión, y esto es exigente.
Por eso, me hago a mí mismo, y también a vosotros, una pregunta: ¿Sería exagerado introducir en el lenguaje de la cooperación internacional la categoría del amor, conjugada como gratuidad, igualdad de trato, solidaridad, cultura del don, fraternidad, misericordia? Estas palabras expresan, efectivamente, el contenido práctico del término «humanitario», tan usado en la actividad internacional. Amar a los hermanos, tomando la iniciativa, sin esperar a ser correspondidos, es el principio evangélico que encuentra también expresión en muchas culturas y religiones, convirtiéndose en principio de humanidad en el lenguaje de las relaciones internacionales. Es menester que la diplomacia y las instituciones multilaterales alimenten y organicen esta capacidad de amar, porque es la vía maestra que garantiza, no sólo la seguridad alimentaria, sino la seguridad humana en su aspecto global. No podemos actuar sólo si los demás lo hacen, ni limitarnos a tener piedad, porque la piedad se limita a las ayudas de emergencia, mientras que el amor inspira la justicia y es esencial para llevar a cabo un orden social justo entre realidades distintas que aspiran al encuentro recíproco. Amar significa contribuir a que cada país aumente la producción y llegue a una autosuficiencia alimentaria. Amar se traduce en pensar en nuevos modelos de desarrollo y de consumo, y en adoptar políticas que no empeoren la situación de las poblaciones menos avanzadas o su dependencia externa. Amar significa no seguir dividiendo a la familia humana entre los que gozan de lo superfluo y los que carecen de lo necesario.
El compromiso de la diplomacia nos ha demostrado, también en recientes acontecimientos, que es posible detener el recurso a las armas de destrucción masiva. Todos somos conscientes de la capacidad de destrucción de tales instrumentos. Pero, ¿somos igualmente conscientes de los efectos de la pobreza y de la exclusión? ¿Cómo detener a personas dispuestas a arriesgarlo todo, a generaciones enteras que pueden desaparecer porque carecen del pan cotidiano, o son víctimas de la violencia o de los cambios climáticos? Se desplazan hacia donde ven una luz o perciben una esperanza de vida. No podrán ser detenidas por barreras físicas, económicas, legislativas, ideológicas. Sólo una aplicación coherente del principio de humanidad lo puede conseguir. En cambio, vemos que se disminuye la ayuda pública al desarrollo y se limita la actividad de las Instituciones multilaterales, mientras se recurre a acuerdos bilaterales que subordinan la cooperación al cumplimiento de agendas y alianzas particulares o, sencillamente, a una momentánea tranquilidad. Por el contrario, la gestión de la movilidad humana requiere una acción intergubernamental coordinada y sistemática de acuerdo con las normas internacionales existentes, e impregnada de amor e inteligencia. Su objetivo es un encuentro de pueblos que enriquezca a todos y genere unión y diálogo, no exclusión ni vulnerabilidad.
Aquí permitidme que me una al debate sobre la vulnerabilidad, que causa división a nivel internacional cuando se habla de inmigrantes. Vulnerable es el que está en situación de inferioridad y no puede defenderse, no tiene medios, es decir sufre una exclusión. Y lo está obligado por la violencia, por las situaciones naturales o, aún peor, por la indiferencia, la intolerancia e incluso por el odio. Ante esta situación, es justo identificar las causas para actuar con la competencia necesaria. Pero no es aceptable que, para evitar el compromiso, se tienda a atrincherarse detrás de sofismas lingüísticos que no hacen honor a la diplomacia, reduciéndola del «arte de lo posible» a un ejercicio estéril para justificar los egoísmos y la inactividad.
Lo deseable es que todo esto se tenga en cuenta a la hora de elaborar el Pacto mundial para una migración segura, regular y ordenada, que se está realizando actualmente en el seno de las Naciones Unidas.
4. Prestemos oído al grito de tantos hermanos nuestros marginados y excluidos: «Tengo hambre, soy extranjero, estoy desnudo, enfermo, recluido en un campo de refugiados». Es una petición de justicia, no una súplica o una llamada de emergencia. Es necesario que a todos los niveles se dialogue de manera amplia y sincera, para que se encuentren las mejores soluciones y se madure una nueva relación entre los diversos actores del escenario internacional, caracterizada por la responsabilidad recíproca, la solidaridad y la comunión.
El yugo de la miseria generado por los desplazamientos muchas veces trágicos de los emigrantes puede ser eliminado mediante una prevención consistente en proyectos de desarrollo que creen trabajo y capacidad de respuesta a las crisis medioambientales. Es verdad, la prevención cuesta mucho menos que los efectos provocados por la degradación de las tierras o la contaminación de las aguas, flagelos que azotan las zonas neurálgicas del planeta, en donde la pobreza es la única ley, las enfermedades aumentan y la esperanza de vida disminuye.
Son muchas y dignas de alabanza las iniciativas que se están poniendo en marcha. Sin embargo, no bastan, urge la necesidad de seguir impulsando nuevas acciones y financiando programas que combatan el hambre y la miseria estructural con más eficacia y esperanzas de éxito. Pero si el objetivo es el de favorecer una agricultura diversificada y productiva, que tenga en cuenta las exigencias efectivas de un país, entonces no es lícito sustraer las tierras cultivables a la población, dejando que el land grabbing (acaparamiento de tierras) siga realizando sus intereses, a veces con la complicidad de quien debería defender los intereses del pueblo. Es necesario alejar la tentación de actuar en favor de grupos reducidos de la población, como también de utilizar las ayudas externas de modo inadecuado, favoreciendo la corrupción, o la ausencia de legalidad.
La Iglesia Católica, con sus instituciones, teniendo directo y concreto conocimiento de las situaciones que se deben afrontar o de las necesidades a satisfacer, quiere participar directamente en este esfuerzo en virtud de su misión, que la lleva a amar a todos y le obliga también a recordar, a cuantos tienen responsabilidad nacional o internacional, el gran deber de afrontar las necesidades de los más pobres.
Deseo que cada uno descubra, en el silencio de la propia fe o de las propias convicciones, las motivaciones, los principios y las aportaciones para infundir en la FAO, y en las demás Instituciones intergubernamentales, el valor de mejorar y trabajar infatigablemente por el bien de la familia humana.
Muchas gracias.