Dott. Ermanno Pavesi
Da alcuni anni, anche in pubblicazioni divulgative il concetto di resilienza è utilizzato per definire e spiegare le capacità di una persona di affrontare positivamente situazioni di crisi.
Il vocabolario on line della Enciclopedia Italiana Treccani spiega che resilienza significa: «1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza alla rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto, il cui inverso è la fragilità. […] 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.»
Per completezza, si deve ricordare che il concetto di resilienza è stato applicato anche in altri ambiti come, per esempio, la biologia, l’ecologia, la sociologia, in informatica resilienza designa la capacità di un sistema di adattarsi alle condizioni d’uso e di resistere all’usura, ma si parla anche di cyber-resilienza per la capacità di una organizzazione di proseguire al meglio la propria attività in caso di un attacco cyber. Il termine resilienza è stato utilizzato spesso anche in occasione dell’epidemia del Covid-19, il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, per esempio, ha chiamato opération résilience l’impiego da lui deciso dei militari nella lotta contro l’epidemia.
L’uso del termine in campi completamente differenti pone la questione se si tratta di un termine generico, che può essere utilizzato in ambiti molto eterogenei, oppure se può designare modelli utilizzabili indifferentemente per lo studio delle proprietà di materiali, di processi biologici, di fenomeni naturali e in particolare anche dell’uomo.
Si tratta di una questione aperta fin dagli inizi della civiltà occidentale: l’uomo è solamente una particella della natura? Il suo comportamento e la sua attività psichica possono essere spiegate in base alle conoscenze delle scienze naturali dell’epoca, oppure l’uomo è dotato di un’anima spirituale che non è possibile ignorare? In altri termini, pur presentando caratteristiche simili a quelle di altri esseri viventi, la dimensione spirituale gli conferisce una dignità particolare?
Anche in epoca precristiana c’è stata una contrapposizione tra due visioni dell’uomo: una naturalistica, secondo la quale la reazione dell’individuo a una certa situazione è determinata unicamente da fattori naturali, e una concezione dell’uomo dotato di un nucleo spirituale, di un’anima, che è soggetto a condizionamenti naturali e sociali, ma che reagisce in una determinata situazione liberamente in base al suo discernimento.
Il cristianesimo ha determinato una svolta importante. Secondo il filosofo Giovanni Reale la sintesi della narrazione biblica della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio con la filosofia greca ha permesso di elaborare un concetto di persona che ha caratterizzato la formazione della civiltà occidentale e costituisce il fondamento spirituale dell’Europa, grazie proprio al «[…] concetto di ‘uomo come persona’, completamente sconosciuto al pensiero greco e alle altre culture, in connessione con il concetto di “Dio come persona”, che instaura un rapporto diretto con ciascuno degli uomini e da cui dipende la stessa nozione di uomo-persona». La concezione dell’uomo come persona presuppone l’esistenza di un fine ultimo che è possibile conoscere con la ragione, anche se in modo approssimativo, e che può essere raggiunto grazie al libero arbitrio e alla pratica della virtù.
Per il filosofo Romano Guardini (1885-1968) il progressivo allontanamento della civiltà occidentale dal cristianesimo, che ha caratterizzato fin dal suo inizio l’epoca moderna, ha comportato anche una svolta antropologica con la crisi della concezione dell’uomo come persona: «La conoscenza della persona è perciò legata alla fede cristiana. La persona può essere affermata e coltivata per qualche tempo anche quando tale fede si è spenta, ma poi gradatamente queste cose vanno perdute». Negata la dimensione personale, viene a mancare il centro integratore capace di moderare i singoli istinti e passioni, l’esistenza si frammenta in una serie di momenti e di episodi indipendenti l’uno dall’altro. «L’uomo quale è concepito dai tempi moderni non esiste. I rinnovati tentativi di richiuderlo in categorie alle quali egli non appartiene: meccaniche, biologiche, psicologiche, sociologiche, sono tutte variazioni della volontà fondamentale di fare di lui un essere che sia “natura”».
I tentativi di spiegare la vita umana alla luce solo di una categoria si sono rivelati inadeguati e riduzionistici, con un errore fondamentale, cioè di spiegare il comportamento umano come effetto di una o più cause, senza tenere presente che l’uomo ha un fine, e per usare il termine filosofico, un telos. Il filosofo Alasdair MacIntyre descrive l’incapacità del pensiero contemporaneo «di considerare ciascuna vita umana come un tutto, come un’unità, il cui carattere fornisce alle virtù un telos adeguato» e questo per la «[…] tendenza a pensare l’azione umana in modo atomistico e ad analizzare azioni e transizioni complesse in termini di elementi semplici. […] Che le azioni particolari traggano il proprio carattere dal fatto di essere parti di totalità più vaste, è un punto di vista estraneo ai nostri modi di pensare dominanti, e tuttavia è un punto di vista che occorre almeno prendere in considerazione se vogliamo cominciare a capire come una vita possa essere più che una sequenza di azioni ed episodi individuali».
Se l’uomo non ha un fine ultimo, la sua vita non è orientata al suo perseguimento, ma è costituita da una serie di episodi più o meno collegati tra di loro e che fanno capitolo a sé. Questa visione dell’uomo, comune a molte psicologie moderne, è ben rappresentata dallo psicoterapeuta americano Carl Rogers (1902-1987), fondatore della terapia centrata sul cliente, che considera l’uomo come un organismo che in ogni momento deve soddisfare ogni desiderio e istinto, senza tener conto di principi, valori od obblighi: «Nel fluttuare della complessa corrente della mia esperienza, e nello sforzo di comprendere la complessità continuamente mutevole, non possono esistere posizioni rigide. Quando sono in grado di vivere nel corso del processo non potrò mantenere alcun sistema di credenze, nessun insieme immutabile di principi». L’uomo dovrebbe accettare di «essere un processo di potenzialità sempre nuovo, invece di essere o divenire qualche cosa di predeterminato»
Descrizione della resilienza individuale
Antropologie senza una visione dell’uomo come persona hanno difficoltà a dare una spiegazione unitaria della resilienza, ma annoverano una serie di caratteristiche che dovrebbero migliorare la capacità dell’individuo a superare una condizione di difficoltà, come ottimismo, robustezza psichica, carattere comunicativo, autostima, indipendenza, humor, empatia, capacità analitica e di pianificazione, autonomia, senso di fiducia personale, apertura alle relazioni sociali, capacità di risolvere i problemi e prendere decisioni. Queste caratteristiche sono a volte discutibili: le persone di poche parole possono essere più determinate e tenaci di altre più loquaci. Anche l’ottimismo può essere un’arma a doppio taglio, all’inizio, può evitare lo scoraggiamento, ma può solo rimandarlo al momento in cui si dovrà fare i conti con le difficoltà concrete.
La resilienza e l’uomo come persona
La questione della resilienza ha avuto un ruolo fondamentale nell’opera del neuropsichiatra e psicoterapeuta viennese Viktor Frankl (1905-1997), anche se allora la definiva resistenza spirituale. Già prima della seconda guerra mondiale, Frankl aveva riconosciuto l’inadeguatezza delle due principali correnti psicoterapeutiche del tempo, la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) e la psicologia individuale di Alfred Adler (1870-1937), per il loro riduzionismo con l’esclusione della dimensione personale e spirituale dell’uomo. Frankl riteneva necessario elaborare una psicologia dell’altezza in contrapposizione alla psicologia del profondo, sostenendo in particolare la necessità di «individuare le categorie di valori che risultano fondamentali per la ricerca e la realizzazione del senso della vita; prospettare la positività del dolore e la possibilità di poter prendere sempre un atteggiamento, anche nelle situazioni-limite».
Frankl era ebreo ed è stato deportato con la sua famiglia. Durante il suo internamento in diversi Lager tedeschi dal settembre 1942 fino alla sua liberazione nell’aprile 1945, ha avuto modo di analizzare il proprio comportamento e di osservare quello dei suoi compagni di internamento, verificando le sue teorie.
Considerato che nella vita di un uomo può esistere tutta una gerarchia di valori, alcuni relativi a singole situazioni, altri che riguardano prospettive più ampie fino a un valore finale, che può dare senso a tutta l’esistenza, Frankl ha descritto due atteggiamenti esistenziali limite, “la condotta esistenziale provvisoria” e “la consapevolezza di avere un scopo nella vita”.
«La persona che vive ‘alla giornata’ vive anche secondo il suo bisogno immediato. Si comprende allora come essa rinunci a costruire per il futuro una vita meritevole di essere vissuta, una vita affettiva degna di un essere umano; si comprende come si preoccupi innanzitutto di godere totalmente l’attimo, di non lasciarsi sfuggire alcuna occasione». Persone di questo tipo mostrano meno resistenza nelle situazioni difficili, perché non sono in grado di relativizzare la sofferenza momentanea in vista di un fine superiore, come può fare chi invece ha uno scopo nella vita: «C’è una cosa sola che mette l’individuo nella condizione di superare le difficoltà ed è la consapevolezza di servire ad una causa». Nei Lager Frankl ha potuto osservare che: «Nell’ultima guerra mondiale abbiamo vissuto momenti molto gravi e abbiamo conosciuto persone che sapevano come sarebbe stato difficile portare a casa la pelle. Ebbene, queste persone, coscienti di trovarsi di fronte alla morte continuavano a reggere e fare il proprio dovere. Nemmeno la mortale minaccia del campo di concentramento – tanto per indicare un limite – le poneva nella condizione di considerare la loro situazione, la vita nel lager, come una situazione provvisoria o come puro e semplice episodio, ma piuttosto come il culmine della loro esistenza, l’occasione di uno stimolo massimo»
Frankl introduce anche un altro concetto interessante, se ci si fissa su un valore relativo lo si assolutizza, con il rischio che valori relativi «non vengono accettati nella loro relatività e vengono invece intesi come un valore assoluto, se, in altre parole vengono elevati a idolo». Ma, proprio nelle situazioni limiti, si dimostra l’inconsistenza di questi valori relativi assolutizzati, con la conseguenza che ogni idolatria si vendica e ci può portare «direttamente alla disperazione».
Il comportamento di Frankl nei Lager è la migliore conferma delle sue teorie. Pensava alla famiglia, di cui non conosceva il destino, ma come psicoterapeuta si è sentito responsabile dei suoi compagni di internamento, si impegnava a tenerne alto il morale e organizzava attività per dare un po’ di senso alla vita nel campo di concentramento. In questo modo è riuscito a dare un senso alla situazione nella quale si trovava.
L’opera di Viktor Frankl offre alla questione della resilienza un approccio differente da quelli correnti, non si tratta di descrivere singoli aspetti del carattere. La resilienza di un individuo dipende dalla stabilità interiore e dalla forza di resistenza dello spirito: «Proprio nella prigionia e nella fame si è visto nuovamente che il comportamento della persona dipendeva dal fatto di possedere o no una stabilità interiore» e questa stabilità dipende dalla «forza di resistenza dello spirito».
Dott. Ermanno Pavesi
1.- Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’”uomo europeo”, Raffaello Cortina, Milano 2003, p.7.
2.- Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna, trad. it., in Idem, La fine dell’epocamoderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 7-109 (p. 100).
3.- Ibid., p. 80
4.- Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1988, p. 244.
5.- Carl Rogers, La “Terapia centrata-sul-cliente”. Teoria e ricerca, trad. it., Martinelli& C., Firenze 1994, p. 43.
6.- Ibid., p. 172.
7.- Eugenio Fizzotti, Invito alla lettura degli scritti giovanili di Viktor Frankl, in Viktor E. Frankl, Le radici della logoterapia. Scritti giovanili 1923-1942, a cura di E. Fizzotti. LAS, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 2000, p.10.
8.- Viktor Frankl, Psicologia per tutti, Conversazioni radiofoniche sulla psichiatria, trad. it., Figlie di San Paolo, Roma 1985, p. 48.
9.- Ibid., p. 63.
10.- Ibid., p. 49.
11.- Ibid., p. 66.
12.- Ibid., p. 66.
13.- Ibid., p. 165.
14.- Ibid., p. 166.