Il racconto dell’epidemia nei secoli
Nella «Diceria dell’untore» di Gesualdo Bufalino
È il romanzo d’esordio Diceria dell’untore (1981), quando aveva poco più di sessant’anni Gesualdo Bufalino, lo scrittore siciliano del quale il 14 giugno ricorre il 24esimo anniversario della morte, avvenuta in un tragico incidente sulla strada tra Comiso e Vittoria. La particolarità di quest’opera sta nel fatto che il contagio, nello specifico quello della tubercolosi, non è raccontato dal punto di vista esterno della diffusione dell’epidemia, del suo espandersi e diffondersi e delle numerose vittime che essa ha mietuto tanto che per definire questo flagello, che si è propagato in modo assai virulento in tutta Europa tra il XVIII e il XX secolo si è giunti a coniare, in analogia con la “peste nera” del Medioevo, l’espressione altrettanto terribile di “peste bianca”.
La prospettiva, che Bufalino ha preferito adottare nell’opera, è invece quella del narratore interno e cioè di parlare dell’infezione scegliendo l’angolo visuale dei contagiati. Il ricorso a questo tipo di focalizzazione avviene in modo quasi spontaneo perché il protagonista non fa altro che riferire quella che era stata la sua esperienza personale. La storia è ambientata infatti in un sanatorio situato nella Conca d’Oro, a pochi chilometri da Palermo, ribattezzato dai degenti «la Rocca», dove lo scrittore era stato ricoverato da giovane per alcuni mesi tra l’estate e l’autunno del 1946, essendosi venuto a trovare «con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo» (cito dall’edizione Bompiani, 2016). Proprio tale scelta narrativa, dovuta a ragioni biografiche, permette all’autore di ragionare sulla malattia e sul contagio e di confrontarsi a viso aperto con la condizione di «infettivo» che condivideva con gli altri ospiti del tubercolosario.
In tal senso Diceria dell’untore si presenta come un modo per guardare dentro la “peste”, da parte di chi, suo malgrado, ha dovuto prendere ineluttabilmente e drammaticamente dimora presso di essa. Ecco perché non è un libro facile. Come accade ne La montagna incantata il romanzo di Thomas Mann che ne costituisce l’archetipo e il modello, il morbo nella narrazione di Bufalino non è mai esorcizzato anzi al contrario, è interiorizzato, vissuto, pensato, discusso, guardato in faccia, direttamente negli occhi. In primo luogo a partire dalla consapevolezza di trovarsi nella condizione di essere dei possibili propagatori del male. Cosa che poteva avvenire sia quando ci si muoveva da soli, ciascuno lasciandosi «dietro a ogni passo le sue lumacature e polluzioni d’untore», sia nelle uscite in gruppo che i ricoverati facevano verso la città, tanto che lungo il tragitto gli avveduti «viaggiatori abituali si scostavano un poco, senza farlo parere, all’apparire di quel drappello di lazzaroni cupidi e ossuti». Del resto che la tisi ne avesse segnato profondamente, oltre che il destino, anche il volto e il fisico, non poteva sfuggire a nessuno, anzi «in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali» saltava subito agli occhi «quel cencio di corpo addosso, quella somma insufficiente di lena e di sangue», che essi stancamente si portavano in giro.
Anche Marta, la paziente della sezione femminile della Rocca, «una di su, che stava a Sondalo», con la quale il protagonista avrebbe intrecciato una storia d’amore, «un puerile e condannato amore, più di parole che d’atti», esprime assai chiaramente questo sapersi contagiata e contagiosa: «Sì — ha modo di affermare a un certo punto — l’analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire solo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiato è un veleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta. Anche quello stipite del Politeama, poc’anzi. Anche questa posata. E sento, so, di spargere e ungere dappertutto la morte, su intonaci, tovaglioli, orli di piatto». Allora il suo interlocutore le aveva risposto prontamente che nel dialetto siciliano «dare il contagio si dice “ammiscari”. Cioè mescolare». Si trattava di una precisazione importante e necessaria perché in questo modo insieme al valore reale del termine si sottolineava anche il significato metaforico di ogni contaminazione: «Il contagio, difatti, involontario o voluto, è il connotato stupendo d’ogni peste del sangue e della storia. Per esso un malanno individuale ha il potere di tramutarsi in calamità collettiva; ogni infezione è una seduzione».
A fare da sfondo e ad animare queste «dicerie», questo «lungo dire» e argomentare in modo «per lo più non breve», in base al significato del lemma del Tommaseo-Bellini posto a epigrafe del romanzo, c’è sempre il pensiero della morte. Spiega Bufalino in una breve nota sulla genesi dell’opera, che «a monte del libro sta comunque un’esperienza: la scoperta del sentimento di morte». La morte è sempre il prezzo da pagare al contagio. Il protagonista confessa apertamente che «non c’era giorno o notte, alla Rocca, che essa non gli alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza». E anche gli altri che si trovavano lì se ne erano fatti un’idea.
Il Gran Magro, per esempio, uno dei dottori dell’ospedale, che si muoveva tra i letti dei malati come il Napoleone visita gli appestati di Jaffa del dipinto di Antoine-Jean Gros (1804), propendeva per una visione della vita venata da un certo nichilismo, come una sera aveva lasciato chiaramente intendere, avendo chiuso la discussione, sorta non a caso attorno a una scacchiera, con l’affermazione che «la morte avviene al di fuori di ogni disegno». Angelo, invece, un paziente molto delicato, diceva che «la morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri» e che bastava «affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama». Poi c’era padre Vittorio, il cappellano militare, anche lui non si sa come giunto a curarsi alla Rocca da Cividale del Friuli, dal quale il protagonista sente di aver subito maggiormente il fascino, il «contagio», allorché questo «giovane apostolo, commovente e barbuto, gli raccontava nell’Altra la loro stessa Passione».
Se ne erano andati tutti, il dottore, Angelo Sciumè, padre Vittorio, Marta Levi. La “peste bianca” non aveva risparmiato nessuno: «Le loro morti si susseguirono svelte, fu un repulisti, una svendita», registra amaramente il narratore superstite che però ha voluto ricordare ognuno di loro in una serie di epitaffi posti alla fine del libro. Il più breve è quello per Sebastiano Mancuso (1918-1946), in tutto quattro parole latine: Hic situs, luce finita, lo stesso testo che è possibile leggere anche oggi, in un tragico e singolare intreccio con i destini dei suoi compagni di sanatorio di un tempo, sulla tomba di Bufalino: «Qui posto, al termine del suo giorno».
di Lucio Coco