«A vedere e sentire cosa accade nel mondo per la pandemia, ringraziando il cielo, la situazione in Benin non è per nulla drammatica». Lo dichiara a «L’Osservatore Romano» padre Guy-Gervais Ayite, superiore provinciale dei camilliani nel Benin-Togo. Dopo la scoperta del primo caso di contagio a metà marzo oggi la situazione è stabile e si contano 305 persone infette, 188 guariti e quattro decessi. La decisione del governo di non imporre il lockdown ha fatto molto discutere, ma il religioso spiega che «sarebbe assurdo non riconoscere l’estrema fragilità economica di queste famiglie. Spesso vivono con meno di due euro al giorno e questo poco denaro si ottiene solo se si esce di casa la mattina per andare a lavoro. Si preferisce morire di covid-19 piuttosto che di fame: purtroppo non si ha scelta».
Malaria e denutrizione, infatti, sono le altre piaghe che affliggono il Paese. Così, durante la pandemia, il 17 maggio si sono svolte anche le elezioni comunali. Voto per cui è stato imposto l’utilizzo delle mascherine e il distanziamento fisico di un metro nei seggi elettorali. «In un contesto socioeconomico come il nostro dove si teme davvero il peggio — spiega il camilliano — le statistiche inducono a un cauto ottimismo». La maggior parte delle persone contagiate hanno dei sintomi leggeri o sono asintomatiche. Il sistema utilizzato per contrastare la pandemia prevede l’isolamento dei malati e una profilassi con la clorochina per loro e per chiunque sia entrato in contatto con essi. Tuttavia, in Benin ci sono tanti altri problemi che quasi offuscano il covid-19: da marzo a oggi sono stati registrati oltre 1.350 decessi a causa della malaria. «Basta girare per i villaggi — racconta padre Guy-Gervais — per notare che meno della metà dei bambini sono scolarizzati a causa della mancanza di disponibilità economiche».
Secondo i dati del Programma alimentare mondiale (Wfp), in Benin circa il dieci per cento delle famiglie patisce la scarsità di cibo, mentre il 32 per cento dei bambini sotto i cinque anni di età è denutrito. Altro problema è la bassa alfabetizzazione che si attesta intorno al 40 per cento. «Più del 70 per cento dei giovani diplomati non hanno un lavoro e anche mangiare un pasto al giorno è difficile», aggiunge il missionario, «e d’altronde anche quelli che lavorano guadagnano una miseria, ma di meglio non c’è».
Padre Guy-Gervais vive a Cotonou, centro economico di oltre settecentomila abitanti che si affaccia sull’Atlantico e dove, dice, «la situazione negli ospedali della città è sotto controllo». Pur prendendo le misure di prevenzione minima contro il virus si vive quasi nella normalità. «Ci sono stati attimi di panico quando sono stai registrati due decessi: il primo in una clinica privata poi chiusa per un mese, il secondo in una struttura pubblica in cui hanno serrato un reparto. I due episodi hanno fatto risalire la soglia di attenzione dal punto di vista sanitario. «I test con i tamponi vengono fatti ma in modo molto selettivo e troppo limitato», sostiene il missionario. «Del resto i tamponi non sono direttamente a disposizione degli ospedali, ma sono gestiti centralmente dal governo».
Da decenni i camilliani sono impegnati in Benin, dove gestiscono alcune strutture sanitarie e l’ospedale La Croix a Cotonou. Molti confratelli sono laureati in medicina o infermeria e si sono adoperati subito per contrastare la diffusione del covid-19: adottando le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Who) e sensibilizzando i pazienti che frequentano i centri. «L’educazione per la prevenzione è l’unico baluardo per evitare il disastro», dice il superiore provinciale, «soprattutto in un paese come il Benin che prima dello scoppio della pandemia possedeva meno di 15 respiratori». Il governo tiene informata la popolazione sulle buone pratiche da seguire e ha imposto l’utilizzo delle mascherine, mentre guanti e tute sono presenti negli ospedali e nelle strutture sanitarie.
Il carisma dei camilliani è quello di servire Dio negli ammalati, anche mettendo in pericolo la propria vita, come vuole il quarto voto dell’ordine. In tempo di pandemia, riflette padre Guy-Gervais, «ciò risveglia in noi l’impegno nel cuore di questa situazione, così come i nostri confratelli l’avevano fatto varie volte durante la peste nel cuore dell’Europa». Con il coronavirus le attività missionarie sono cambiate, soprattutto «il modo di concepire il triage dei pazienti e l’igiene», continua il missionario, «consapevoli che la salvezza collettiva dipende da questi elementi. Abbiamo rivisto il circuito dei pazienti in ambulatorio e provato a limitare, non senza fatica, le visite dei parenti». È grazie ai religiosi se i poveri riescono più facilmente ad accedere alle cure.
I beninesi sono consapevoli dei pericoli del virus: hanno accettato le limitazioni imposte dal governo, indossano mascherine di fortuna e si muovono per quanto è indispensabile. Ciò accade anche in virtù dell’importanza riconosciuta alla Chiesa cattolica locale. Basti pensare alla fondamentale opera di mediazione compiuta nel 2019 per risolvere la crisi politica durante le ultime elezioni nazionali. «Un ruolo di rilievo che sempre più qualche mano invisibile prova a screditare, affogando le sue gesta», dichiara il camilliano. Così la Conferenza episcopale del Benin — che nel 2020 ha festeggiato trent’anni di storia — ha adottato misure d’avanguardia per la lotta al virus che sono state riprese dallo Stato. Come in tante parti del mondo, anche qui da tempo non si celebra la santa messa e non si svolgono altre attività religiose pubbliche, anche se molte parrocchie hanno preso a farlo in streaming su YouTube o su Facebook. Sulla radio Immaculée Conception, invece, la Chiesa locale ha messo in programma le celebrazioni eucaristiche nelle varie lingue parlate nel Paese. «Si sente dire che a breve potrebbero anche ricominciare regolarmente le funzioni religiose», confida padre Gervais.
Nella mappa del rischio pandemico redatta dall’Africa Center for strategic studies, attualmente il Benin è il quinto Stato africano più sicuro. Tuttavia, secondo le Nazioni Unite i prossimi mesi saranno decisivi per il continente, che dovrebbe raggiungere il picco delle infezioni di covid-19. «L’aumento del numero di contagi probabilmente non si potrà evitare — conclude il missionario — ma la mia speranza è che aumenti il livello di immunità nella popolazione, che così sarà protetta dalla furia del virus. In un contesto socioeconomico come il nostro mi sembra sia l’unica cosa sicura che duri nel tempo».
di Giordano Contu