DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE SU
“I TRATTAMENTI DI SOSTEGNO VITALE E LO STATO VEGETATIVO,
PROGRESSI SCIENTIFICI E DILEMMI ETICI”
(17-20 MARZO 2004, AUGUSTINIANUM)
Sabato, 20 marzo 2004

Illustri Signore e Signori!

1. Saluto molto cordialmente tutti voi partecipanti al Congresso Internazionale “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas”. Un saluto particolare desidero rivolgere a Mons. Elio Sgreccia, Vice-Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ed al Professor Gian Luigi Gigli, Presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici e generoso paladino del fondamentale valore della vita, il quale s’è fatto amabilmente interprete dei comuni sentimenti.

Questo importante Congresso, organizzato insieme dalla Pontificia Accademia per la Vita e dalla Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici, sta affrontando un tema di grande rilevanza: la condizione clinica denominata “stato vegetativo”. I complessi risvolti scientifici, etici, sociali e pastorali di tale condizione necessitano di una profonda riflessione e di un proficuo dialogo interdisciplinare, così come dimostra il denso ed articolato programma dei vostri lavori.

2. La Chiesa con viva stima e sincera speranza incoraggia gli sforzi degli uomini di scienza che dedicano quotidianamente, talvolta con grandi sacrifici, il loro impegno di studio e di ricerca per il miglioramento delle possibilità diagnostiche, terapeutiche, prognostiche e riabilitative nei confronti di questi pazienti totalmente affidati a chi li cura e li assiste. La persona in stato vegetativo, infatti, non dà alcun segno evidente di coscienza di sé o di consapevolezza dell’ambiente e sembra incapace di interagire con gli altri o di reagire a stimoli adeguati.

Gli studiosi avvertono che è necessario anzitutto pervenire ad una corretta diagnosi, che normalmente richiede una lunga ed attenta osservazione in centri specializzati, tenuto conto anche dell’alto numero di errori diagnostici riportati in letteratura. Non poche di queste persone, poi, con cure appropriate e con programmi di riabilitazione mirati, sono in grado di uscire dallo stato vegetativo. Molti altri, al contrario, restano purtroppo prigionieri del loro stato anche per tempi molto lunghi e senza necessitare di supporti tecnologici.

In particolare, per indicare la condizione di coloro il cui “stato vegetativo” si prolunga per oltre un anno, è stato coniato il termine di stato vegetativo permanente. In realtà, a tale definizione non corrisponde una diversa diagnosi, ma solo un giudizio di previsione convenzionale, relativo al fatto che la ripresa del paziente è, statisticamente parlando, sempre più difficile quanto più la condizione di stato vegetativo si prolunga nel tempo.

Tuttavia, non va dimenticato o sottovalutato come siano ben documentati casi di recupero almeno parziale, anche a distanza di molti anni, tanto da far affermare che la scienza medica, fino ad oggi, non è ancora in grado di predire con sicurezza chi tra i pazienti in queste condizioni potrà riprendersi e chi no.

3. Di fronte ad un paziente in simili condizioni cliniche, non manca chi giunge a mettere in dubbio il permanere della sua stessa “qualità umana”, quasi come se l’aggettivo “vegetale” (il cui uso è ormai consolidato), simbolicamente descrittivo di uno stato clinico, potesse o dovesse essere invece riferito al malato in quanto tale, degradandone di fatto il valore e la dignità personale. In questo senso, va rilevato come il termine in parola, pur confinato nell’ambito clinico, non sia certamente il più felice in riferimento a soggetti umani.

In opposizione a simili tendenze di pensiero, sento il dovere di riaffermare con vigore che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita.

Un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un “vegetale” o un “animale”.

Anche i nostri fratelli e sorelle che si trovano nella condizione clinica dello “stato vegetativo” conservano tutta intera la loro dignità umana. Lo sguardo amorevole di Dio Padre continua a posarsi su di loro, riconoscendoli come figli suoi particolarmente bisognosi di assistenza.

4. Verso queste persone, medici e operatori sanitari, società e Chiesa hanno doveri morali dai quali non possono esimersi, senza venir meno alle esigenze sia della deontologia professionale che della solidarietà umana e cristiana.

L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla prevenzione delle complicazioni legate all’allettamento. Egli ha diritto anche ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa.

In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze.

L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congr. Dottr. Fede, Iura et bona, p. IV) comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cfr Pont. Cons. «Cor Unum », Dans le cadre, 2.4.4; Pont. Cons. Past . Operat. Sanit., Carta degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione.

La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione.

In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione.

A tal proposito, ricordo quanto ho scritto nell’Enciclica Evangelium vitae, chiarendo che “per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”; una tale azione rappresenta sempre “una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana” (n. 65).

Del resto, è noto il principio morale secondo cui anche il semplice dubbio di essere in presenza di una persona viva già pone l’obbligo del suo pieno rispetto e dell’astensione da qualunque azione mirante ad anticipare la sua morte.

5. Su tale riferimento generale non possono prevalere considerazioni circa la “qualità della vita”, spesso dettate in realtà da pressioni di carattere psicologico, sociale ed economico.

Innanzitutto, nessuna valutazione di costi può prevalere sul valore del fondamentale bene che si cerca di proteggere, la vita umana.

Inoltre, ammettere che si possa decidere della vita dell’uomo sulla base di un riconoscimento dall’esterno della sua qualità, equivale a riconoscere che a qualsiasi soggetto possano essere attribuiti dall’esterno livelli crescenti o decrescenti di qualità della vita e quindi di dignità umana, introducendo un principio discriminatorio ed eugenetico nelle relazioni sociali.

Inoltre, non è possibile escludere a priori che la sottrazione dell’alimentazione e idratazione, secondo quanto riportato da seri studi, sia causa di grandi sofferenze per il soggetto malato, anche se noi possiamo vederne solo le reazioni a livello di sistema nervoso autonomo o di mimica. Le moderne tecniche di neurofisiologia clinica e di diagnosi cerebrale per immagini, infatti, sembrano indicare il perdurare in questi pazienti di forme elementari di comunicazione e di analisi degli stimoli.

6. Non basta, tuttavia, riaffermare il principio generale secondo cui il valore della vita di un uomo non può essere sottoposto ad un giudizio di qualità espresso da altri uomini; è necessario promuovere azioni positive per contrastare le pressioni per la sospensione della idratazione e della nutrizione, come mezzo per porre fine alla vita di questi pazienti.

Occorre innanzitutto sostenere le famiglie, che hanno avuto un loro caro colpito da questa terribile condizione clinica.

Esse non possono essere lasciate sole col loro pesante carico umano, psicologico ed economico. Benché l’assistenza a questi pazienti non sia in genere particolarmente costosa, la società deve impegnare risorse sufficienti per la cura di questo tipo di fragilità, attraverso la realizzazione di opportune iniziative concrete quali, ad esempio, la creazione di una rete capillare di unità di risveglio, con programmi specifici di assistenza e riabilitazione; il sostegno economico e l’assistenza domiciliare alle famiglie, quando il paziente verrà trasferito a domicilio al termine dei programmi di riabilitazione intensiva; la creazione di strutture di accoglienza per i casi in cui non vi sia una famiglia in grado di fare fronte al problema o per offrire periodi di “pausa” assistenziale alle famiglie a rischio di logoramento psicologico e morale.

L’assistenza appropriata a questi pazienti e alle loro famiglie dovrebbe, inoltre, prevedere la presenza e la testimonianza del medico e dell’équipe assistenziale, ai quali è chiesto di far comprendere ai familiari che si è loro alleati e che si lotta con loro; anche la partecipazione del volontariato rappresenta un sostegno fondamentale per far uscire la famiglia dall’isolamento ed aiutarla a sentirsi parte preziosa e non abbandonata della trama sociale.

In queste situazioni, poi, riveste particolare importanza la consulenza spirituale e l’aiuto pastorale, come ausilio per recuperare il significato più profondo di una condizione apparentemente disperata.

7. Illustri Signore e Signori, in conclusione vi esorto, come persone di scienza, responsabili della dignità della professione medica, a custodire gelosamente il principio secondo cui vero compito della medicina è di “guarire se possibile, aver cura sempre” (to cure if possibile, always to care).

A suggello e sostegno di questa vostra autentica missione umanitaria di conforto e di assistenza verso i fratelli sofferenti, vi ricordo le parole di Gesù: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

In questa luce, invoco su di voi l’assistenza di Colui che una suggestiva formula patristica qualifica come Christus medicus e, nell’affidare il vostro lavoro alla protezione di Maria, Consolatrice degli afflitti e conforto dei morenti, a tutti imparto con affetto una speciale Benedizione Apostolica.

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Congress on Life-Sustaining Treatments and Vegetative State , Rome, 17-20 March 2004: Final statement

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SPEECH OF JOHN PAUL II TO THE PARTICIPANTS
AT THE INTERNATIONAL CONGRESS
“LIFE SUSTAINING TREATMENTS AND VEGETATIVE STATE:
SCIENTIFIC ADVANCES AND ETHICAL DILEMMAS”
Saturday 20 March 2004

Distinguished Ladies and Gentlemen!

1. I cordially greet all of you who took part in the International Congress: “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas.”

I wish to extend a special greeting to Msgr. Elio Sgreccia, Vice-President of the Pontifical Academy for Life, and to Prof. Gian Luigi Gigli, President of the International Federation of Catholic Medical Associations and selfless champion of the fundamental value of life, who has kindly expressed your shared feelings.

This important Congress, organized jointly by the Pontifical Academy for Life and the International Federation of Catholic Medical Associations, is dealing with a very significant issue: the clinical condition called the “vegetative state.” The complex scientific, ethical, social and pastoral implications of such a condition require in-depth reflections and a fruitful interdisciplinary dialogue, as evinced by the intense and carefully structured program of your work sessions.

2. With deep esteem and sincere hope, the Church encourages the efforts of men of science who, sometimes at great sacrifice, daily dedicate their task of study and research to the improvement of the diagnostic, therapeutic, prognostic and rehabilitative possibilities confronting those patients who rely completely on those who care for and assist them. The person in a vegetative state, in fact, shows no evident sign of self-awareness or of awareness of the environment, and seems unable to interact with others or to react to specific stimuli.

Scientists and researchers realize that one must, first of all, arrive at a correct diagnosis, which usually requires prolonged and careful observation in specialized centers, given also the high number of diagnostic errors reported in the literature. Moreover, not a few of these persons, with appropriate treatment and with specific rehabilitation programs, have been able to emerge from vegetative state. On the contrary, many others unfortunately remain prisoners of their condition even for long stretches of time and without needing technological support.

In particular, the term permanent vegetative state has been coined to indicate the condition of those patients whose “vegetative state” continues for over a year.

Actually, there is no different diagnosis that corresponds to such a definition, but only a conventional prognostic judgement, relative to the fact that, statistically speaking, the recovery of patients is ever more difficult as the condition of vegetative state is prolonged in time.

However, we must neither forget nor underestimate that there are well documented cases of at least partial recovery even after many years; we can thus state that medical science, up till now, is still unable to predict with certainty who, among patients in this condition, will recover and who will not.

3. Faced with patients in similar clinical conditions, there are some who cast doubt on the persistence of the “human quality” itself, almost as if the adjective “vegetative” (whose use is now solidly established), which symbolically describes a clinical state, could or should be instead applied to the sick as such, actually demeaning their value and personal dignity. In this sense, it must be noted that this term, even when confined to the clinical context, is certainly not the most felicitous when applied to human beings.

In opposition to such trends of thought, I feel the duty to reaffirm strongly that the intrinsic value and personal dignity of every human being do not change, no matter what the concrete circumstances of his or her life. A man, even if seriously ill or disabled in the exercise of his highest functions, is and always will be a man, and he will never become a “vegetable” or an “animal.”

Even our brothers and sisters who find themselves in the clinical condition of a “vegetative state” retain their human dignity in all its fulness. The loving gaze of God the Father continues to fall upon them, acknowledging them as his sons and daughters, especially in need of help.

4. Medical doctors and health care personnel, society and the Church have toward these persons moral duties from which they cannot exempt themselves without lessening the demands both of professional ethics and human and Christian solidarity.

The sick person in a vegetative state, awaiting recovery or a natural end, still has the right to basic health care (nutrition, hydration, cleanliness, warmth, etc), and to the prevention of complications related to his confinement to bed. He also has the right to appropriate rehabilitative care and to be monitored for clinical signs of eventual recovery.

I should like particularly, to underline how the administration of water and food, even when provided by artificial means, always represents a natural means of preserving life, not a medical act. Its use, furthermore, should be considered, in principle, ordinary and proportionate, and as such morally obligatory, insofar as and until it is seen to have attained its proper finality, which in the present case consists in providing nourishment to the patient and alleviation of his suffering.

The obligation to provide the “normal care due to the sick in such cases” (Congregation for the Doctrine of the Faith, Iura et bona, p. IV) includes, in fact, the use of nutrition and hydration (cf. Pontifical Council “Cor Unum”, Dans le cadre, 2.4.4; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, Charter of Health Care Workers, no. 120). The evaluation of probabilities, founded on waning hopes for recovery when the vegetative state is prolonged beyond a year, cannot ethically justify the cessation or interruption of minimal care for the patient including nutrition and hydration. Death by starvation or thirst is, in fact, the only possible outcome as a result of their withdrawal. In this sense it ends up becoming, if done knowingly and willingly, true and proper euthanasia by omission.

In this regard, I recall what I wrote in the Encyclical Evangelium vitae, making it clear that “by Euthanasia in the true and proper sense must be understood an action or omission which by its very nature and intention brings about death, with the purpose of eliminating all pain”; such an act is always “a serious violation of the law of God, since it is the deliberate and morally unacceptable killing of a human person” (no. 65).

Besides, the moral principle is well known, according to which even the simple doubt of being in the presence of a living person already imposes the obligation of full respect and of abstaining from any act that aims at anticipating the person’s death.

5. Considerations about the “quality of life,” often actually dictated by psychological, social and economic pressures, cannot take precedence over general principles.

First of all, no evaluation of costs can outweigh the value of the fundamental good which we are trying to protect, that of human life. Moreover, to admit that decisions regarding man’s life can be based on the external acknowledgment of its quality, is the same as acknowledging that increasing and decreasing levels of quality of life, and therefore of human dignity, can be attributed, from an external perspective, to any subject, thus introducing into social relations a discriminatory and eugenic principle.

Moreover, it is not possible to rule out a priori that the withdrawal of nutrition and hydration, as reported by authoritative studies, is the source of considerable suffering for the sick person, even if we can see only the reactions at the level of the autonomic nervous system or of gestures. Modern clinical neurophysiology and neuro-imaging techniques, in fact, seem to point to the lasting quality in these patients of elementary forms of communication and analysis of stimuli.

6. However, it is not enough to reaffirm the general principle according to which the value of a man’s life cannot be made subordinate to any judgement of its quality expressed by other men; it is necessary to promote the taking of positive actions as a stand against pressures to withdraw hydration and nutrition as a way to put an end to the lives of these patients.

It is necessary, above all, to support those families who have had one of their loved ones struck down by this terrible clinical condition. They cannot be left alone with their heavy human, psychological and financial burden. Although the care for these patients is not, in general, particularly costly, society must allot sufficient resources for the care of this sort of frailty, by way of bringing about appropriate, concrete initiatives such as, for example, the creation of a network of awakening centers, with specialized treatment and rehabilitation programs; financial support and home assistance for families, when patients are moved back home at the end of intensive rehabilitation programs; the establishment of facilities which can accommodate those cases in which there is no family able to deal with the problem or to provide “breaks” for those families who are at risk of psychological and moral burn-out.

Proper care for these patients and their families should, moreover, include the presence and the witness of a medical doctor and an entire team, who are asked to help the family understand that they are there as allies who are in this struggle with them. The participation of volunteers represents a basic support to enable the family to break out of its isolation and to help it to realize that it is a precious and not a forsaken part of the social fabric.

In these situations, then, spiritual counseling and pastoral aid are particularly important as they help recover the deepest meaning of an apparently desperate condition.

7. Distinguished Ladies and Gentlemen, in conclusion I exhort you, as men and women of science, responsible for the dignity of the medical profession, to guard jealously the principle according to which the true task of medicine is “to cure if possible, always to care.”

As a pledge and support of this, your authentic humanitarian mission to give comfort and support to your suffering brothers and sisters, I remind you of the words of Jesus: “Amen, I say to you, whatever you did for one of these least brothers of mine, you did for me.”(Mt 25, 40).

In this light, I invoke upon you the assistance of Him, whom a meaningful saying of the Church Fathers describes as Christus medicus and, in entrusting your work to the protection of Mary, Consoler of the sick and Comforter of the dying, I lovingly bestow on all of you a special Apostolic Blessing.

DISCURSO DEL SANTO PADRE JUAN PABLO II
A LOS PARTICIPANTES EN UN CONGRESO SOBRE
“TRATAMIENTOS DE MANTENIMIENTO VITAL Y ESTADO VEGETATIVO”
Sábado 20 de marzo de 2004

Ilustres señoras y señores:

1. Os saludo muy cordialmente a todos vosotros, participantes en el congreso internacional sobre “Tratamientos de mantenimiento vital y estado vegetativo: avances científicos y dilemas éticos”. Deseo dirigir un saludo, en particular, a monseñor Elio Sgreccia, vicepresidente de la Academia pontificia para la vida, y al profesor Gian Luigi Gigli, presidente de la Federación internacional de asociaciones de médicos católicos y generoso defensor del valor fundamental de la vida, el cual se ha hecho amablemente intérprete de los sentimientos comunes.

Este importante congreso, organizado conjuntamente por la Academia pontificia para la vida y la Federación internacional de asociaciones de médicos católicos, está afrontando un tema de gran importancia: la condición clínica denominada “estado vegetativo”. Las complejas implicaciones científicas, éticas, sociales y pastorales de esa condición necesitan una profunda reflexión y un fecundo diálogo interdisciplinar, como lo demuestra el denso y articulado programa de vuestros trabajos.

2. La Iglesia, con gran estima y sincera esperanza, estimula los esfuerzos de los hombres de ciencia que se dedican diariamente, a veces con grandes sacrificios, al estudio y a la investigación para mejorar las posibilidades diagnósticas, terapéuticas, de pronóstico y de rehabilitación de estos pacientes totalmente confiados a quien los cuida y asiste. En efecto, la persona en estado vegetativo no da ningún signo evidente de conciencia de sí o del ambiente, y parece incapaz de interaccionar con los demás o de reaccionar a estímulos adecuados.

Los estudiosos consideran que es necesario ante todo llegar a un diagnóstico correcto, que normalmente requiere una larga y atenta observación en centros especializados, teniendo en cuenta también el gran número de errores de diagnóstico referidos en la literatura. Además, no pocas de estas personas, con una atención apropiada y con programas específicos de rehabilitación, son capaces de salir del estado vegetativo. Al contrario, muchos otros, por desgracia, permanecen prisioneros de su estado, incluso durante períodos de tiempo muy largos y sin necesitar soportes tecnológicos.

En particular, para indicar la condición de aquellos cuyo “estado vegetativo” se prolonga más de un año, se ha acuñado la expresión estado vegetativo permanente. En realidad, a esta definición no corresponde un diagnóstico diverso, sino sólo un juicio de previsión convencional, que se refiere al hecho de que, desde el punto de vista estadístico, cuanto más se prolonga en el tiempo la condición de estado vegetativo, tanto más improbable es la recuperación del paciente.

Sin embargo, no hay que olvidar o subestimar que existen casos bien documentados de recuperación, al menos parcial, incluso a distancia de muchos años, hasta el punto de que se puede afirmar que la ciencia médica, hasta el día de hoy, no es aún capaz de predecir con certeza quién entre los pacientes en estas condiciones podrá recuperarse y quién no.

3. Ante un paciente en esas condiciones clínicas, hay quienes llegan a poner en duda incluso la permanencia de su “calidad humana”, casi como si el adjetivo “vegetal” (cuyo uso ya se ha consolidado), simbólicamente descriptivo de un estado clínico, pudiera o debiera referirse en cambio al enfermo en cuanto tal, degradando de hecho su valor y su dignidad personal. En este sentido, es preciso notar que el término citado, aunque se utilice sólo en el ámbito clínico, ciertamente no es el más adecuado para referirse a sujetos humanos.

En oposición a esas tendencias de pensamiento, siento el deber de reafirmar con vigor que el valor intrínseco y la dignidad personal de todo ser humano no cambian, cualesquiera que sean las circunstancias concretas de su vida. Un hombre, aunque esté gravemente enfermo o se halle impedido en el ejercicio de sus funciones más elevadas, es y será siempre un hombre; jamás se convertirá en un “vegetal” o en un “animal”.

También nuestros hermanos y hermanas que se encuentran en la condición clínica de “estado vegetativo” conservan toda su dignidad humana. La mirada amorosa de Dios Padre sigue posándose sobre ellos, reconociéndolos como hijos suyos particularmente necesitados de asistencia.

4. Los médicos y los agentes sanitarios, la sociedad y la Iglesia tienen, con respecto a esas personas, deberes morales de los que no pueden eximirse sin incumplir las exigencias tanto de la deontología profesional como de la solidaridad humana y cristiana.

Por tanto, el enfermo en estado vegetativo, en espera de su recuperación o de su fin natural, tiene derecho a una asistencia sanitaria básica (alimentación, hidratación, higiene, calefacción, etc.), y a la prevención de las complicaciones vinculadas al hecho de estar en cama. Tiene derecho también a una intervención específica de rehabilitación y a la monitorización de los signos clínicos de eventual recuperación.

En particular, quisiera poner de relieve que la administración de agua y alimento, aunque se lleve a cabo por vías artificiales, representa siempre un medio natural de conservación de la vida, no un acto médico. Por tanto, su uso se debe considerar, en principio, ordinario y proporcionado, y como tal moralmente obligatorio, en la medida y hasta que demuestre alcanzar su finalidad propia, que en este caso consiste en proporcionar alimento al paciente y alivio a sus sufrimientos.

En efecto, la obligación de proporcionar “los cuidados normales debidos al enfermo en esos casos” (Congregación para la doctrina de la fe, Iura et bona, p. IV), incluye también el empleo de la alimentación y la hidratación (cf. Consejo pontificio “Cor unum”, Dans le cadre, 2. 4. 4; Consejo pontificio para la pastoral de la salud, Carta de los agentes sanitarios, n. 120). La valoración de las probabilidades, fundada en las escasas esperanzas de recuperación cuando el estado vegetativo se prolonga más de un año, no puede justificar éticamente el abandono o la interrupción de los cuidados mínimos al paciente, incluidas la alimentación y la hidratación. En efecto, el único resultado posible de su suspensión es la muerte por hambre y sed. En este sentido, si se efectúa consciente y deliberadamente, termina siendo una verdadera eutanasia por omisión.

A este propósito, recuerdo lo que escribí en la encíclica Evangelium vitae, aclarando que “por eutanasia, en sentido verdadero y propio, se debe entender una acción o una omisión que por su naturaleza y en la intención causa la muerte, con el fin de eliminar cualquier dolor”; esta acción constituye siempre “una grave violación de la ley de Dios, en cuanto eliminación deliberada y moralmente inaceptable de una persona humana” (n. 65).

Por otra parte, es conocido el principio moral según el cual incluso la simple duda de estar en presencia de una persona viva implica ya la obligación de su pleno respeto y de la abstención de cualquier acción orientada a anticipar su muerte.

5. Sobre esta referencia general no pueden prevalecer consideraciones acerca de la “calidad de vida”, a menudo dictadas en realidad por presiones de carácter psicológico, social y económico.

Ante todo, ninguna evaluación de costes puede prevalecer sobre el valor del bien fundamental que se trata de proteger: la vida humana. Además, admitir que se puede decidir sobre la vida del hombre basándose en un reconocimiento exterior de su calidad equivale a reconocer que a cualquier sujeto pueden atribuírsele desde fuera niveles crecientes o decrecientes de calidad de vida, y por tanto de dignidad humana, introduciendo un principio discriminatorio y eugenésico en las relaciones sociales.

Asimismo, no se puede excluir a priori que la supresión de la alimentación y la hidratación, según cuanto refieren estudios serios, sea causa de grandes sufrimientos para el sujeto enfermo, aunque sólo podamos ver las reacciones a nivel de sistema nervioso autónomo o de mímica. En efecto, las técnicas modernas de neurofisiología clínica y de diagnóstico cerebral por imágenes parecen indicar que en estos pacientes siguen existiendo formas elementales de comunicación y de análisis de los estímulos.

6. Sin embargo, no basta reafirmar el principio general según el cual el valor de la vida de un hombre no puede someterse a un juicio de calidad expresado por otros hombres; es necesario promover acciones positivas para contrastar las presiones orientadas a la suspensión de la hidratación y la alimentación, como medio para poner fin a la vida de estos pacientes.

Ante todo, es preciso sostener a las familias que han tenido a un ser querido afectado por esta terrible condición clínica. No se las puede dejar solas con su pesada carga humana, psicológica y económica. Aunque, por lo general, la asistencia a estos pacientes no es particularmente costosa, la sociedad debe invertir recursos suficientes para la ayuda a este tipo de fragilidad, a través de la realización de oportunas iniciativas concretas como, por ejemplo, la creación de una extensa red de unidades de reanimación, con programas específicos de asistencia y rehabilitación; el apoyo económico y la asistencia a domicilio a las familias, cuando el paciente es trasladado a su casa al final de los programas de rehabilitación intensiva; la creación de centros de acogida para los casos de familias incapaces de afrontar el problema, o para ofrecer períodos de “pausa” asistencial a las que corren el riesgo de agotamiento psicológico y moral.

Además, la asistencia apropiada a estos pacientes y a sus familias debería prever la presencia y el testimonio del médico y del equipo de asistencia, a los cuales se les pide que ayuden a los familiares a comprender que son sus aliados y luchan con ellos; también la participación del voluntariado representa un apoyo fundamental para hacer que las familias salgan del aislamiento y ayudarles a sentirse parte valiosa, y no abandonada, del entramado social.

En estas situaciones reviste, asimismo, particular importancia el asesoramiento espiritual y la ayuda pastoral, como apoyo para recuperar el sentido más profundo de una condición aparentemente desesperada.

7. Ilustres señoras y señores, para concluir, os exhorto, como personas de ciencia, responsables de la dignidad de la profesión médica, a custodiar celosamente el principio según el cual el verdadero cometido de la medicina es “curar si es posible, pero prestar asistencia siempre” (to cure if possible, always to care).

Como sello y apoyo de vuestra auténtica misión humanitaria de consuelo y asistencia a los hermanos que sufren, os recuerdo las palabras de Jesús: “En verdad os digo que cuanto hicisteis a uno de estos hermanos míos más pequeños, a mí me lo hicisteis” (Mt 25, 40).

A esta luz, invoco sobre vosotros la asistencia de Aquel a quien una sugestiva fórmula patrística califica como Christus medicus; y, encomendando vuestro trabajo a la protección de María, Consoladora de los afligidos y consuelo de los moribundos, con afecto imparto a todos una especial bendición apostólica.

DISCOURS DU PAPE JEAN-PAUL II AUX PARTICIPANTS
AU CONGRÈS INTERNATIONAL PROMU PAR LA FÉDÉRATION
INTERNATIONALE DES ASSOCIATIONS DES MÉDECINS CATHOLIQUES
(17-20 MARS 2004, AUGUSTINIANUM)
Samedi 20 mars 2004

Mesdames et Messieurs!

1. Je vous salue cordialement, vous tous qui participez au Congrès international “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas”. Je désire adresser un salut particulier à Mgr Elio Sgreccia, Vice-Président de l’Académie pontificale pour la Vie, et à M. Gian Luigi Gigli, Président de la Fédération internationale des Associations des médecins catholiques, et généreux défenseur de la valeur fondamentale de la vie, qui s’est fait aimablement l’interprète des sentiments communs.

Cet important Congrès, organisé avec l’Académie pontificale pour la Vie et la Fédération internationale des Associations des médecins catholiques, affronte un thème d’une grande importance: l’état clinique appelé “état végétatif”. Les aspects scientifiques, éthiques, sociaux et pastoraux complexes de cet état nécessitent une profonde réflexion et un dialogue utile entre les disciplines, comme le démontre le programme riche et complexe de vos travaux.

2. L’Eglise, avec une profonde estime et une sincère espérance, encourage les efforts des scientifiques qui consacrent chaque jour, parfois au prix de grands sacrifices, leur travail d’étude et de recherche en vue de l’amélioration des possibilités de diagnostic, de thérapie, de pronostic et de réhabilitation à l’égard de ces patients entièrement confiés à ceux qui les soignent et qui les assistent. En effet, la personne dans un état végétatif ne montre aucun signe évident de conscience de son état, ni de l’environnement, et semble incapable d’interagir avec les autres ou de réagir à des stimulations adéquates.

Les chercheurs sentent qu’il est nécessaire avant tout de parvenir à un diagnostic correct, qui exige normalement une observation longue et attentive dans des centres spécialisés, compte tenu notamment du nombre important d’erreurs de diagnostic dont les annales font état. De plus, un grand nombre de ces personnes, grâce à des soins appropriés et des programmes de réhabilitation ciblés, sont en mesure de sortir de l’état végétatif. Beaucoup d’autres, au contraire, restent malheureusement prisonniers de leur état pendant des périodes très longues et sans avoir besoin de supports technologiques.

En particulier, pour indiquer la condition de ceux dont “l’état végétatif” se prolonge pendant plus d’un an, le terme d’état végétatif permanent a été créé. En réalité, cette définition ne correspond pas à un diagnostic différent, mais simplement à un jugement conventionnel de prévision, relatif au fait que la reprise du patient est, statistiquement parlant, toujours plus difficile au fur et à mesure que la condition d’état végétatif se prolonge dans le temps.

Toutefois, il ne faut pas oublier ou sous-estimer que des cas de récupération, du moins partiels, même après de nombreuses années, ont été recensés, au point que l’on a affirmé que la science médicale, jusqu’à aujourd’hui, n’est pas encore en mesure de prévoir avec certitude qui, parmi les patients dans cet état, pourra se remettre ou ne le pourra pas.

3. Face à un patient dans un tel état clinique, certaines personnes en arrivent à mettre en doute la subsistance même de sa “qualité humaine”, presque comme si l’adjectif “végétatif” (dont l’utilisation est désormais consolidée), qui décrit de façon symbolique un état clinique, pouvait ou devait se référer au contraire au malade en tant que tel, dégradant de fait sa valeur et sa dignité personnelle. A cet égard, il faut souligner que ce terme, même limité au domaine clinique, n’est certainement pas des plus heureux lorsqu’il se réfère à des sujets humains.

En opposition à ces courants de pensée, je ressens le devoir de réaffirmer avec vigueur que la valeur intrinsèque et la dignité personnelle de tout être humain ne changent pas, quelles que soient les conditions concrètes de sa vie. Un homme, même s’il est gravement malade, ou empêché dans l’exercice de ses fonctions les plus hautes, est et sera toujours un homme, et ne deviendra jamais un “végétal” ou un “animal”.

Nos frères et soeurs qui se trouvent dans l’état clinique d'”état végétatif” conservent eux aussi intacte leur dignité humaine. Le regard bienveillant de Dieu le Père continue de se poser sur eux, les reconnaissant comme ses fils ayant particulièrement besoin d’assistance.

4. Les médecins et les agents de la santé, la société et l’Eglise ont envers ces personnes des devoirs moraux auxquels ils ne peuvent se soustraire sans manquer aux exigences tant de la déontologie professionnelle que de la solidarité humaine et chrétienne.

Le malade dans un état végétatif, dans l’attente d’un rétablissement ou de sa fin naturelle, a donc droit à une assistance médicale de base (alimentation, hydratation, hygiène, réchauffement, etc.) et à la prévention des complications liées à l’alitement. Il a également le droit à une intervention réhabilitative précise et au contrôle des signes cliniques d’une éventuelle reprise.

En particulier, je voudrais souligner que l’administration d’eau et de nourriture, même à travers des voies artificielles, représente toujours un moyen naturel de maintien de la vie, et non pas un acte médical. Son utilisation devra donc être considérée, en règle générale, comme ordinaire et proportionnée, et, en tant que telle, moralement obligatoire, dans la mesure où elle atteint sa finalité propre, et jusqu’à ce qu’elle le démontre, ce qui, en l’espèce, consiste à procurer une nourriture au patient et à alléger ses souffrances.

L’obligation de ne pas faire manquer “les soins normaux dus au malade dans des cas semblables” (Congrégation pour la Doctrine de la Foi, Iura et bona, p. IV) comprend en effet également le recours à l’alimentation et à l’hydratation (cf. Conseil pontifical “Cor Unum”, Dans le cadre, 2.4.; Conseil pontifical pour la Pastorale des Services de la Santé, Charte des Agents de la Santé n. 120). L’évaluation des probabilités, fondée sur les maigres espérances de reprise lorsque l’état végétatif se prolonge au-delà d’un an, ne peut justifier éthiquement l’abandon ou l’interruption des soins de base au patient, y compris l’alimentation et l’hydratation. La mort due à la faim ou à la soif est, en effet, l’unique résultat possible à la suite de leur suspension. Dans ce sens, elle finit par prendre la forme, si elle est effectuée de façon consciente et délibérée, d’une véritable euthanasie par omission.

A ce propos, je rappelle ce que j’ai écrit dans l’Encyclique Evangelium vitae, en expliquant que “par euthanasie au sens strict, on doit entendre une action ou une omission qui, de soi et dans l’intention, donne la mort afin de supprimer ainsi toute douleur”; une telle action représente toujours “une grave violation de la Loi de Dieu, en tant que meurtre délibéré moralement inacceptable d’une personne humaine” (n. 65).

D’ailleurs, on reconnaît le principe moral selon lequel même le simple soupçon d’être en présence d’une personne vivante entraîne, dès lors, l’obligation de son plein respect et de l’abs-tention de toute action visant à anticiper sa mort.

5. Face à cette référence générale ne peuvent prévaloir les considérations en ce qui concerne la “qualité de la vie”, souvent dictées en réalité par des pressions à caractère psychologique, social et économique.

Avant tout, aucune évaluation en terme de coûts ne peut prévaloir sur la valeur du bien fondamental que l’on tente de protéger, la vie humaine. En outre, admettre que l’on puisse décider de la vie de l’homme sur la base d’une reconnaissance extérieure de sa qualité, équivaut à reconnaître que l’on peut attribuer de l’extérieur à tout sujet des degrés croissants et décroissants de qualité de vie et donc de dignité humaine, en introduisant un principe discriminatoire et eugénique dans les relations sociales.

En outre, il n’est pas possible d’exclure a priori que la privation de l’alimentation et de l’hydratation, selon ce que révèlent de sérieuses études, soit la cause de profondes souffrances pour le sujet malade, même si nous ne pouvons en voir les réactions qu’au niveau du système nerveux autonome ou au niveau des signes d’expression. Les technologies modernes de neurophysiologie clinique et de diagnostic cérébral par image, en effet, semblent indiquer la persistance chez ces patients de formes élémentaires de communications et d’analyse des stimulations.

6. Il ne suffit pas, toutefois, de réaffirmer le principe général selon lequel la valeur de la vie d’un homme ne peut être soumise à un jugement de qualité exprimé par d’autres hommes; il est nécessaire de promouvoir des actions positives pour combattre les pressions en vue de la suppression de l’hydratation et de l’alimentation, comme moyen de mettre fin à la vie de ces patients.

Il faut avant tout soutenir les familles, dont l’un des membres est frappé par ce terrible état clinique. Elles ne peuvent être abandonnées à leur lourd fardeau humain, psychologique et économique. Bien que l’assistance à ces patients ne soit pas en général onéreuse, la société doit allouer des ressources suffisantes au soin de ce type de situation, à travers la mise en place d’initiatives concrètes opportunes, comme, par exemple, la création d’un réseau capillaire d’unité de réveil, avec des programmes spécifiques d’assistance et de réhabilitation; le soutien économique et l’assistance à domicile pour les familles, lorsque le patient est transporté à son domicile au terme des programmes de réhabilitation intensive; la création de structures d’accueil dans les cas où il n’y a pas de famille en mesure de faire face au problème ou pour offrir des périodes de “pause” pour venir en aide aux familles qui courent le risque d’un épuisement psychologique et moral.

L’assistance appropriée à ces patients et à leur famille devrait, en outre, prévoir la présence et le témoignage du médecin et de l’équipe d’assistance, auxquels il est demandé de faire comprendre aux proches qu’ils sont leurs alliés et qu’ils luttent à leurs côtés; la participation du volontariat représente également un soutien fondamental pour faire sortir la famille de l’isolement et l’aider à se sentir une composante précieuse et non pas abandonnée du tissu social.

En outre, dans ces situations, le conseil spirituel et l’aide pastorale revêtent une importance particulière pour aider à retrouver la signification la plus profonde d’une situation apparemment désespérée.

7. Mesdames et messieurs, en conclusion, je vous exhorte, en tant qu’hommes et femmes de science, responsables de la dignité de la profession médicale, à préserver jalousement le principe selon lequel le véritable devoir de la médecine consiste à “guérir si possible, prendre toujours soin” (to cure if possible, always to care).

En signe et en soutien de votre authentique mission humanitaire de réconfort et d’assistance envers nos frères qui souffrent, je vous rappelle les paroles de Jésus: “En vérité je vous le dis, dans la mesure où vous l’avez fait à l’un de ces plus petits de mes frères, c’est à moi que vous l’avez fait” (Mt 25, 40).

A cet égard, j’invoque sur vous l’assistance de Celui qu’une formule patristique suggestive qualifie de Christus medicus et, en confiant votre travail à la protection de Marie, Consolatrice des affligés et réconfort des mourants, je donne à tous avec affection une Bénédiction apostolique particulière.

DISCURSO DO PAPA JOÃO PAULO II AOS PARTICIPANTES
NO CONGRESSO PROMOVIDO PELA FIAMC
E PELA PONTIFÍCIA ACADEMIA PARA A VIDA
Sábado, 20 de Março de 2004

Ilustres Senhores e Senhoras!

1. Saúdo muito cordialmente todos vós, participantes no Congresso Internacional “Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas”. Desejo dirigir uma saudação particular a Mons. Elio Sgreccia, Vice-Presidente da Pontifícia Academia para a Vida, e ao Professor Gian Luigi Gigli, Presidente da Federação Internacional das Associações dos Médicos Católicos e generoso defensor do valor fundamental da vida, que se fez amavelmente intérprete dos sentimentos comuns.

Este importante Congresso, organizado ao mesmo tempo pela Pontifícia Academia para a Vida e pela Federação Internacional das Associações dos Médicos Católicos, está a enfrentar um tema de grande importância: a clonagem clínica denominada “estado vegetativo”. As consequências científicas, éticas, sociais e pastorais desta condição necessitam de uma profunda reflexão e de um proveitoso diálogo interdisciplinar, como demonstra o denso e pormenorizado programa dos vossos trabalhos.

2. A Igreja encoraja, com profunda estima e sincera esperança, os esforços dos homens de ciência que dedicam quotidianamente, por vezes com grandes sacrifícios, o seu empenho de estudo e de pesquisa ao melhoramento das possibilidades diagnósticas, terapêuticas, prognósticas e reabilitativas em relação a estes doentes confiados totalmente a quem os cura e os assiste. Com efeito, a pessoa em estado vegetativo não dá algum sinal evidente de consciência de si ou de conhecimento do ambiente e parece ser incapaz de interagir com os outros ou de reagir a estímulos adequados.

Os estudiosos sentem que é necessário, antes de mais, chegar a uma diagnose correcta, que normalmente exige uma longa e atenta observação em centros especializados, tendo em consideração também o elevado número de erros diagnósticos referidos na literatura. Depois, muitas destas pessoas, com curas apropriadas ou com programas de reabilitação específicos, são capazes de sair do estado vegetativo. Muitos, pelo contrário, permanecem infelizmente prisioneiros do seu estado durante períodos muito longos e sem precisar dos suportes tecnológicos.

De modo particular, para indicar a condição daqueles cujo “estado vegetativo” se prolonga por mais de um ano, foi cunhado o termo de estado vegetativo permanente. Na realidade, a esta definição não corresponde uma diagnose diferente, mas apenas um cálculo de previsão convencional, relativo ao facto de que a retomada do doente é, falando em termos de estatística, tanto mais difícil quanto mais a condição de estado vegetativo se prolonga no tempo.

Contudo, não devemos esquecer ou subestimar como são bem documentados casos de recuperação pelo menos parcial, até à distância de muitos anos, a ponto de fazer afirmar que a ciência médica, até hoje, ainda não está em condições de predizer com certeza quem, entre os doentes nestas condições, poderá ou não restabelecer-se.

3. Face a um doente em tais condições clínicas, não falta quem chega a pôr em dúvida a permanência da sua própria “qualidade humana”, quase como se o adjectivo “vegetal” (cujo uso já se consolidou), simbolicamente descritivo de um estado clínico, pudesse ou tivesse que estar, ao contrário, relacionado com o doente como tal, degradando na realidade o seu valor e a sua dignidade pessoal. Neste sentido, deve ser realçado como a palavra em questão, apesar de estar confinada no âmbito clínico, não é indubitavelmente a mais apropriada, dado que se refere a sujeitos humanos.

Em oposição a semelhantes tendências de pensamento, sinto o dever de reafirmar com vigor que o valor intrínseco e a dignidade pessoal de cada ser humano não se alteram, quaisquer que sejam as circunstâncias concretas da sua vida. Um homem, mesmo se se encontra gravemente doente ou impedido no exercício das suas funções mais nobres, é e será sempre um homem, nunca se tornará um “vegetal” ou um “animal”.

Também os nossos irmãos e irmãs que se encontram na condição clínica do “estado vegetativo” conservam completamente íntegra a sua dignidade humana. O olhar amoroso de Deus-Pai continua a velar sobre eles, reconhecendo-os como seus filhos particularmente necessitados de assistência.

4. Os médicos e quantos estão comprometidos no campo da saúde, a sociedade e a Igreja têm, em relação a estas pessoas, deveres morais dos quais não se podem eximir sem faltar às exigências quer da deontologia profissional quer da solidariedade humana e cristã.

Por conseguinte, o doente em estado vegetativo, na expectativa de recuperação ou do fim natural, tem direito a uma assistência hospitalar básica (alimentação, hidratação, higiene, aquecimento, etc.), e à prevenção das complicações relacionadas com o facto de estar de cama. Ele tem direito também a uma específica intervenção de reabilitação e à monitorização dos sinais clínicos de eventual recuperação.

Em particular, gostaria de realçar como a distribuição de água e alimentos, mesmo quando é feita por vias artificiais, representa sempre um meio natural de conservação da vida, não um acto médico. Por conseguinte, o seu uso deve ser considerado, em linha de princípio, ordinário e proporcionado, e como tal moralmente obrigatório, na medida em que, e até quando, ele demonstra alcançar a sua finalidade própria, que, neste caso, consiste em fornecer ao doente alimento e alívio aos sofrimentos.

A obrigação de não deixar faltar “os cuidados normais devidos ao doente em tais casos” (Cong. para a Doutrina da Fé, Iura et bona, pág. IV) compreende, de facto, também o uso da alimentação e da hidratação (cf. Pontifício Conselho “Cor Unum”, Dans le cadre, 2.4.4; Pontifício Conselho para a Pastoral no Campo da Saúde, Carta aos Operadores no Campo da Saúde, n. 120). A avaliação das probabilidades, fundada sobre as escassas esperanças de recuperação quando o estado vegetativo se prolonga por mais de um ano, não pode justificar eticamente o abandono ou a interrupção das curas mínimas ao doente, compreendidas a alimentação e a hidratação. A morte devido à fome ou à sede, de facto, é o único resultado possível depois da sua suspensão. Neste sentido, ela acaba por se configurar, se é consciente e livremente efectuada, como uma verdadeira e própria eutanásia por omissão.

A respeito disto, recordo quanto escrevi na Encíclica Evangelium vitae, ao esclarecer que “por eutanásia em sentido verdadeiro e próprio deve ser entendida uma acção ou omissão que por sua natureza e nas intenções causa a morte, com a finalidade de eliminar qualquer sofrimento”; uma acção semelhante representa sempre “uma grave violação da Lei de Deus, porque representa a morte deliberada moralmente inaceitável de uma pessoa humana” (n. 65).

De resto, sabe-se que o princípio moral segundo o qual também a simples dúvida de estar na presença de uma pessoa viva já obriga ao seu respeito pleno e à abstenção de qualquer acção que tenha por finalidade antecipar a sua morte.

5. Sobre esta referência geral não podem prevalecer considerações sobre a “qualidade da vida”, na realidade ditadas com frequência por pressões de carácter psicológico, social e económico.

Em primeiro lugar, nenhuma avaliação de despesas pode prevalecer sobre o valor do bem fundamental que se procura proteger, a vida humana. Além disso, admitir que se possa decidir sobre a vida do homem com base num reconhecimento exterior da sua qualidade, equivale a reconhecer que a qualquer sujeito podem ser atribuídos níveis crescentes ou decrescentes de qualidade da vida e, por conseguinte, de dignidade humana, introduzindo um princípio discriminatório e eugenético nas relações sociais.

Além disso, não é possível excluir a priori que a subtração da alimentação e da hidratação, segundo quanto é referido por estudos sérios, seja causa de grandes sofrimentos para o sujeito doente, mesmo se nós podemos ver apenas as suas reacções a nível de sistema nervoso autónomo ou de ameaça. Com efeito, as técnicas modernas de neurofisiologia clínica e de diagnose cerebral por imagens parecem indicar a permanência nestes doentes de formas elementares de comunicação e de análise dos estímulos.

6. Contudo, não é suficiente reafirmar o princípio geral segundo o qual o valor da vida de um homem não pode ser submetido a um juízo de qualidade expresso por outros homens; é necessário promover acções positivas para contrastar as pressões para a suspensão da hidratação e da alimentação, como meio para pôr fim à vida destes doentes.

É necessário, antes de mais, apoiar as famílias que tiverem um familiar atingido por esta terrível condição clínica. Elas não podem ser deixadas sozinhas com o seu difícil peso humano, psicológico e económico. Mesmo se a assistência a estes doentes não é em geral particularmente dispendiosa, a sociedade deve empenhar recursos suficientes para a cura deste tipo de fragilidade, através da realização de oportunas iniciativas concretas tais como, por exemplo, a criação de uma rede pormenorizada de unidades com programas específicos de assistência e reabilitação no caso de saída do estado comatoso; o apoio económico e a assistência a domicílio às famílias, quando o doente for transferido para casa no fim dos programas de reabilitação intensiva; a criação de estruturas de acolhimento para os casos em que a família não esteja em condições de enfrentar o problema ou para oferecer períodos de “pausa” assistencial às famílias que correm o risco de desgaste psicológico e moral.

A assistência apropriada a estes doentes e às suas famílias deveria, além disso, prever a presença e o testemunho do médico e da equipe de assistência, aos quais é pedido que façam compreender aos familiares que lhes estão próximos e que lutam com eles; também a participação do voluntariado representa um apoio fundamental para fazer sair a família do isolamento e ajudá-la a sentir-se parte preciosa e não abandonada pelo sistema social.

Nestas situações, depois, assume particular importância a assistência espiritual e a ajuda pastoral, como auxílio para recuperar o significado mais profundo de uma condição aparentemente desesperada.

7. Ilustres Senhores e Senhoras, para concluir, exorto-vos, como pessoas de ciência, responsáveis pela dignidade da profissão médica, a conservar ciosamente o princípio segundo o qual a verdadeira tarefa de medicina é “curar se for possível, cuidar sempre” (to cure if possible, always to care).

Em sinal e apoio a esta vossa autêntica missão humanitária de conforto e de assistência aos irmãos que sofrem, recordo-vos as palavras de Jesus: “Em verdade vos digo: sempre que fizestes isto a um destes meus irmãos mais pequeninos, a mim mesmo o fizestes” (Mt 25, 40).

Nesta luz, invoco sobre vós a assistência daquele que uma sugestiva fórmula patrística qualifica como Christus medicus e, ao confiar o vosso trabalho à protecção de Maria, Conforto dos aflitos e dos moribundos, concedo a todos com afecto uma especial Bênção Apostólica.

ANSPRACHE VON JOHANNES PAUL II. AN DIE TEILNEHMER
DES INTERNATIONALEN FACHKONGRESSES ZUM THEMA
“LEBENSERHALTENDE BEHANDLUNGEN UND VEGETATIVER ZUSTAND:
WISSENSCHAFTLICHE FORTSCHRITTE UND ETHISCHE DILEMMATA”
(17.-20. MÄRZ 2004, AUGUSTINIANUM)
Samstag, 20. März 2004

Sehr geehrte Damen und Herren!

1. Herzlich begrüße ich Sie, die Teilnehmer am Internationalen Fachkongreß »Life-Sustaining Treatments and Vegetative State: Scientific Advances and Ethical Dilemmas« (»Lebenserhaltene Behandlungen und vegetativer Zustand: Wissenschaftliche Fortschritte und ethische Dilemmata«). Einen besonderen Gruß richte ich an Msgr. Elio Sgreccia, Vizepräsident der Päpstlichen Akademie für das Leben, und an Herrn Prof. Gian Luigi Gigli, Präsident der Internationalen Föderation der Katholischen Ärzteverbände und hochherziger Verteidiger des grundlegenden Wertes des Lebens, der freundlicherweise die Empfindungen aller zum Ausdruck gebracht hat.

Dieser bedeutsame Kongreß, der von der Päpstlichen Akademie für das Leben und von der Internationalen Föderation der Katholischen Ärzteverbände organisiert wurde, behandelt ein äußerst wichtiges Thema: das klinische Bild des sogenannten »vegetativen Zustandes« oder »Wachkomas«. Die komplexen wissenschaftlichen, ethischen, sozialen und pastoralen Aspekte dieses Zustandes bedürfen einer tiefen Reflexion und eines fruchtbringenden interdisziplinären Dialogs, wie es Ihr dichtes und reichgegliedertes Arbeitsprogramm beweist.

2. Mit besonderer Wertschätzung und großer Hoffnung ermutigt die Kirche die Anstrengungen der Wissenschaftler, die sich täglich und manchmal unter großen Opfern ihren Studien- und Forschungsaufgaben widmen, um die diagnostischen, therapeutischen, prognostischen und rehabilitativen Möglichkeiten für solche Patienten zu verbessern, die dem behandelnden Arzt und dem Pflegepersonal völlig überlassen sind. Denn die kranke Person gibt kein offensichtliches Zeichen des Bewußtseins ihrer selbst oder ihrer Umgebung von sich und scheint unfähig, mit den anderen zu interagieren oder auf entsprechende Reize zu reagieren.

Die Fachleute weisen vor allem auf die Notwendigkeit hin, zu einer exakten Diagnose zu gelangen, die normalerweise eine lange und aufmerksame Beobachtung in spezialisierten Zentren erfordert, auch unter Berücksichtigung der in der Fachliteratur angeführten hohen Anzahl diagnostischer Irrtümer. Nicht wenige dieser Patienten können später durch angemessene Behandlungen und gezielte Rehabilitationsprogramme aus dem Koma erwachen. Viele andere hingegen bleiben leider Gefangene ihres Zustandes, auch für lange Zeit und ohne technologischer Hilfen zu bedürfen.

Im einzelnen wurde für diejenigen, deren »vegetativer Zustand« mehr als ein Jahr andauert, der Fachausdruck »ständiger vegetativer Zustand« geprägt. In Wirklichkeit entspricht dieser Definition keine andere Diagnose, sondern nur eine konventionelle Prognose in bezug auf die Tatsache, daß die Verbesserung des Zustands des Patienten, statistisch gesehen, immer schwieriger wird, je länger der vegetative Zustand anhält.

Dennoch dürfen die genau dokumentierten Fälle der wenigstens teilweisen Wiederherstellung auch nach vielen Jahren nicht vergessen oder unterschätzt werden. Deshalb muß bekräftigt werden, daß die medizinische Wissenschaft bis heute noch nicht imstande ist, mit Sicherheit vorherzusagen, welche Patienten in diesem Zustand genesen werden oder nicht.

3. Angesichts eines Patienten in einer solchen klinischen Verfassung fehlt es nicht an Menschen, die die Fortdauer seiner »menschlichen Eigenschaft« anzweifeln, als ob das Eigenschaftswort »vegetativ« (dessen Gebrauch sich nunmehr durchgesetzt hat), das einen klinischen Zustand symbolisch beschreibt, jetzt auf den Kranken als solchen bezogen werden könnte oder zu beziehen sei, wodurch in der Tat sein Wert und seine personale Würde erniedrigt werden. In diesem Sinn ist festzuhalten, daß der zwar hauptsächlich auf den klinischen Bereich begrenzte Terminus in bezug auf das menschliche Subjekt sicher nicht der gelungenste ist.

Im Gegensatz zu solchen Denkströmungen empfinde ich es als meine Pflicht, mit Nachdruck zu bekräftigen, daß der jedem Menschen innewohnende Wert und seine personale Würde sich nicht verändern, was immer auch seine konkreten Lebensumstände sein mögen. Ein Mensch ist und bleibt immer ein Mensch und wird nie zur Pflanze oder zum Tier, selbst wenn er schwerkrank oder in der Ausübung seiner höheren Funktionen behindert ist.

Auch unsere Brüder und Schwestern, die sich im klinischen »vegetativen Zustand« befinden, bewahren ihre volle menschliche Würde. Der liebevolle Blick Gottes des Vaters ruht weiterhin auf ihnen und erkennt sie als seine Kinder, die ganz besonderer Hilfe bedürfen.

4. Die Ärzte und die Pfleger, die Gesellschaft und die Kirche haben moralische Verpflichtungen, denen sie sich nicht entziehen können, ohne die Ansprüche sowohl der professionellen Deontologie als auch der menschlichen und christlichen Solidarität zu verfehlen.

Der Kranke im vegetativen Zustand, der die Wiederherstellung oder das natürliche Ende erwartet, hat also das Recht auf eine grundlegende ärztliche Betreuung (Versorgung mit Nahrung und Flüssigkeit, Hygiene, Wärme usw.) und auf die Vorsorge gegen Komplikationen, die mit der Bettlägerigkeit verbunden sind. Er hat auch das Recht auf einen gezielten rehabilitativen Eingriff und auf die Überwachung der klinischen Zeichen einer eventuellen Besserung.

Insbesondere möchte ich unterstreichen, daß die Verabreichung von Wasser und Nahrung, auch wenn sie auf künstlichen Wegen geschieht, immer ein natürliches Mittel der Lebenserhaltung und keine medizinische Handlung ist. Ihre Anwendung ist deshalb prinzipiell als normal und angemessen und damit als moralisch verpflichtend zu betrachten, in dem Maß, in dem und bis zu dem sie ihre eigene Zielsetzung erreicht, die im vorliegenden Fall darin besteht, dem Patienten Ernährung und Linderung der Leiden zu verschaffen.

Denn die Pflicht, »dem Kranken in solchen Fällen die gebotenen normalen Behandlungen« nicht vorzuenthalten (Kongregation für die Glaubenslehre, Iura et bona, S. IV), umfaßt auch die Versorgung mit Nahrung und Wasser (vgl. Päpstlicher Rat »Cor Unum«, Dans le cadre, 2.4.4; Päpstl. Rat für die Pastoral im Krankendienst, Charta für den Krankendienst, Nr. 120). Eine Wahrscheinlichkeitsrechnung, die auf den geringen Hoffnungen auf Besserung gründet, wenn der vegetative Zustand mehr als ein Jahr andauert, kann ethisch die Aussetzung oder Unterbrechung der Mindestbehandlungen des Patienten, einschließlich der Ernährung und Wasserverabreichung, nicht rechtfertigen. Denn der Tod durch Verhungern und Verdursten ist das einzig mögliche Resultat infolge ihrer Unterbrechung. In diesem Sinn wird er am Ende &endash; wenn er bewußt und absichtlich herbeigeführt wird &endash; zur tatsächlichen realen Euthanasie durch Unterlassung.

In dieser Hinsicht habe ich in der Enzyklika Evangelium vitae klargestellt: »Unter Euthanasie im eigentlichen Sinn versteht man eine Handlung oder Unterlassung, die ihrer Natur nach und aus bewußter Absicht den Tod herbeiführt, um auf diese Weise jeden Schmerz zu beenden.« Eine solche Handlung ist immer »eine schwere Verletzung des göttlichen Gesetzes, insofern es sich um die vorsätzliche Tötung einer menschlichen Person handelt, was sittlich nicht zu akzeptieren ist« (Nr. 65).

Im übrigen ist der moralische Grundsatz bekannt, wonach auch der einfache Zweifel, ob man sich einer lebenden Person gegenüber befindet, schon dazu verpflichtet, diese voll zu respektieren und jede Handlung zu unterlassen, die auf ihren vorzeitigen Tod abzielt.

5. In diesem allgemeinen Bezug dürfen Überlegungen hinsichtlich der »Lebensqualität« nicht überwiegen, weil sie in Wirklichkeit oft vom psychologischen, sozialen und wirtschaftlichen Druck diktiert werden.

Eine Abwägung der Kosten darf vor allem nicht über den Wert des grundlegenden Gutes des menschlichen Lebens bestimmen, das man zu schützen sucht. Wenn man nämlich zugibt, daß über die Qualität des Lebens des Menschen auf Grund einer Erkenntnis von außen entschieden werden kann, dann bedeutet das, anzuerkennen, daß man jedem Subjekt von außen ein zunehmendes oder abnehmendes Maß von Lebensqualität und damit von Menschenwürde zugesteht und daß damit ein diskriminierendes und eugenetisches Prinzip in die sozialen Beziehungen eingeführt wird.

Es ist auch nicht »a priori« auszuschließen, daß die Unterlassung der Ernährung und Wasserverabreichung, wie es in ernsthaften Studien heißt, bei dem Kranken große Schmerzen hervorruft, auch wenn wir seine Reaktionen nur auf der Ebene des autonomen oder mimischen Nervensystems sehen können. Die modernen Techniken der klinischen Neurophysiologie und Hirndiagnose durch Bilder scheinen tatsächlich darauf hinzuweisen, daß in diesen Patienten elementare Formen der Kommunikation und der Reizanalyse fortdauern.

6. Dennoch genügt es nicht, den allgemeinen Grundsatz zu bekräftigen, wonach der Wert eines Menschenlebens nicht dem von anderen Menschen ausgesprochenen Urteil über die Qualität unterzogen werden darf; es ist notwendig, ein positives Handeln zu fördern, um dem Druck standzuhalten, der die Unterlassung der Wasserverabreichung und der Ernährung als Mittel benützt, das dem Leben des Patienten ein Ende setzt.

Vor allem sind aber die Familien zu unterstützen, die einen lieben Angehörigen haben, der von diesem schrecklichen klinischen Zustand betroffen ist. Sie dürfen nicht allein gelassen werden mit ihrer schweren menschlichen, psychologischen und finanziellen Belastung. Obwohl die Behandlung solcher Patienten im allgemeinen keine besonderen Kosten verursacht, muß die Gesellschaft ausreichende Mittel zur Verfügung stellen für die Behandlung dieser Art von Gebrechlichkeit, indem sie angemessene und konkrete Initiativen ergreift, wie zum Beispiel die Schaffung von Wachkoma-Stationen mit spezifischen Programmen für die Behandlung und Rehabilitation; die finanzielle Unterstützung und Betreuung der Familien zu Hause, wenn der Patient nach Beendigung der Programme der Intensiv-Rehabilitation wieder heimkehrt; die Schaffung von Hilfsstrukturen für die Fälle, in denen die Angehörigen nicht imstande sind, das Problem zu bewältigen, oder wo den Familien eine »Pause« in der Betreuung ermöglicht wird, um ihrer psychologischen und moralischen Überforderung vorzubeugen.

Die angemessene Behandlung dieser Patienten und die Betreuung ihrer Familien sollten außerdem die Anwesenheit und das Zeugnis des Arztes und des Pflegepersonals vorsehen, die die Aufgabe haben, den Angehörigen zu vermitteln, daß sie sich ihnen verbunden fühlen und an ihrer Seite kämpfen; auch die Beteiligung des freiwilligen Hilfsdienstes stellt eine wichtige Stütze für die Familie dar, damit sie aus der Isolierung herauskommt und sich als wertvolle und nicht allein gelassene Gruppe des sozialen Netzes fühlt.

In diesen Situationen spielen die geistliche Beratung und die Seelsorge eine wichtige Rolle als Hilfe für die Wiederentdeckung des tiefsten Sinns eines scheinbar aussichtslosen Zustandes.

7. Meine Damen und Herren, abschließend fordere ich Sie als Menschen der Wissenschaft, die für die Würde des Arztberufes verantwortlich sind, dazu auf, den Grundsatz streng zu hüten, nach dem die wahre Aufgabe der Medizin darin besteht, »wenn möglich, zu heilen, aber immer Sorge zu tragen« (to cure if possible, always to care).

Zur Besiegelung und Unterstützung Ihrer wahrhaft humanitären Mission des Beistands und der Hilfe für die leidenden Brüder und Schwestern rufe ich die Worte Jesu in Erinnerung: »Amen, ich sage euch: Was ihr für einen meiner geringsten Brüder getan habt, das habt ihr mir getan« (Mt 25,40).

In diesem Licht rufe ich auf Sie den Beistand dessen herab, der mit einem bedeutsamen patristischen Wort als »Christus medicus« bezeichnet wird, und während ich Ihre Arbeiten dem Schutz Marias anvertraue, der Trösterin der Betrübten und Stütze der Sterbenden, erteile ich allen von Herzen meinen besonderen Apostolischen Segen.