Una riflessione sulla recente decisione italiana sulla pillola abortiva
19 agosto 2020
La recente decisione del ministero della Salute italiano di estendere la possibilità di assumere la pillola abortiva Ru486 da 7 a 9 settimane con l’esclusione del ricovero obbligatorio per le donne che la richiedono ci interroga profondamente sugli aspetti psico-sociali e medico-scientifici di questa scelta. Ovunque l’aborto continua a mietere vittime innocenti e a devastare la vita di tante donne: per questo la decisione di estenderne la pratica non può che risultare sconcertante, incrementando le possibilità di sopprimere bambini, che con il loro esserci, chiedono solo di venire al mondo. E in un’epoca di emergenza covid-19, in cui non facciamo che celebrare l’eroicità di medici e operatori che danno la loro vita per salvare altre vite umane, ciò appare quasi paradossale.
I tre aggettivi che più sono stati usati per giustificare l’uso della pillola abortiva sono stati: semplice, indolore, sicuro. Valutiamone la veridicità.
La semplicità dell’assunzione di una pillola, senza il successivo controllo medico che possa monitorare l’evento abortivo e le eventuali complicanze che ne potrebbero derivare, è quanto di più banalizzante e, nel contempo, quanto di più devastante sul piano psicologico per la relazione che si stabilisce fin da subito tra madre e figlio. Anche se la donna non vede con gli occhi del corpo il proprio bambino, lo vede e lo sente con gli occhi dell’anima; il detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” non è assolutamente vero in questa condizione. La donna percepisce la presenza di un figlio fin da subito e questa percezione è indipendente dalle sue dimensioni in centimetri e in grammi; piuttosto è proporzionale alla “presenza” del figlio. La convinzione (errata) che la soppressione del piccolo embrione equivalga ad un piccolo trauma è scientificamente non vera, tanto che molte donne, dopo un aborto spontaneo al secondo mese di gravidanza, mi hanno detto: «Professore, a chi devo dire che sto soffrendo come se avessi perso un figlio di 1,70 m. e 70 kg., invece di un embrione di 12 mm.?».
L’aborto farmacologico cerca di silenziare la verità scientifica di questa relazione biologica, immunologica, ormonale e psicodinamica, che sin dal primo istante del concepimento, si crea tra l’embrione, ossia il figlio, e sua madre: per certa scienza, ormai datata e inconsapevole del “protagonismo biologico” dell’embrione, sembra che questa realtà sia irrilevante. Oggi però sappiamo, per esempio, che già dalla 4ª settimana di gestazione l’embrione comincia a sviluppare tutta una serie di pattern sul piano della sensorialità, in termini di gusto e olfatto, attraverso la relazione con la madre, così come sul piano degli scambi cellulari, inviando alla donna cellule staminali che, attraversando la placenta, per via ematica, raggiungono zone patologiche materne per circoscriverle e guarirle: il feto, infatti, in tal senso, è “medico della madre”.
Da parte sua, la madre sviluppa una forte ed intima percezione della presenza del figlio, sostenendolo con ossigeno e nutrizionali: questa relazione reciproca si chiama “simbiosi materno-fetale” ed è un meraviglioso mistero che ormai la scienza ha potuto conoscere e approfondire.
Se tutto ciò è vero, la scelta di abortire con la Ru486 non può essere indolore: sul piano fisico, essa comporta contrazioni dolorosissime; sul piano psichico genera un’iper-responsabilizzazione della donna, perché è lei che deve assumere la pillola, è lei che deve farsi attrice, protagonista e spettatrice dell’agonia del proprio figlio e dei fenomeni emorragici che potranno verificarsi per un periodo che può arrivare fino a due settimane e in un luogo qualsiasi, senza preavviso, esponendo la donna — nel 56 per cento dei casi — all’esperienza devastante di vedere l’embrione espulso dal proprio corpo con tutto il sacchetto embrionale («British Medical Journal», 332, 1235, 2006).
Per le complicazioni e gli effetti avversi riportati anche nella letteratura internazionale, l’aborto farmacologico non è nemmeno sicuro per la salute delle donne. In essa si afferma: «Il rischio di perdite emorragiche di grossa entità e di trasfusione è maggiore in donne che si sottopongono ad aborto medico dopo la 7ª settimana» (American College of Obstetricians and Gynecologists, Acog, «Practical Bulletin», 143, 2014). E ancora: «Il quadro globale suggerisce che le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di forti emorragie dopo un aborto farmacologico, per un periodo medio accertato di perdite di sangue e crampi pari a dieci giorni» (Royal College of Obstetricians and Gynecologists, Rcog, Guidelines, 2011; Update Guidelines, March 2, 2020). Le complicanze emorragiche, con l’estensione da 7 a 9 settimane, aumentano in quantità e pericolosità, così come aumenta il tasso di trasfusione sulle donne (6,49 volte di più, secondo il Chinese Cochrane Center 2004 Jan; 39(1): 39-42), senza tralasciare il rischio di mortalità che è stato pubblicato dalla Fda statunitense (24 morti correlate fino al 31 dicembre 2018). In Italia, negli ultimi 12 anni, ci sono stati 2 morti correlate alla Ru486 (Istituto Superiore Sanità, Primo Rapporto it oss: Sorveglianza della mortalità materna, 2019).
Un organismo britannico, il National Institute for Health and Care Excellence (Nice), deputato a stabilire le buone pratiche di condotta clinica, riporta che dopo l’assunzione della pillola abortiva la gravidanza potrebbe proseguire (Abortion Care Nice Guidelines – September 25, 2019). Tale probabilità diventa più elevata man mano che aumenta l’epoca gestazionale in cui si assume la pillola abortiva.
La continuazione della gravidanza dopo una pratica abortiva è doppiamente devastante sul piano psicologico e fisico, poiché se la donna rivedesse la sua scelta e volesse portare avanti la gravidanza, si troverebbe dinanzi a un ulteriore problema, dato che l’uso della pillola abortiva può causare malformazioni fetali. Se invece, volesse ripetere la pratica abortiva dovrebbe utilizzare farmaci a dosaggi più elevati, con sintomi e rischi ancora più rilevanti.
Accanto a queste evidenze scientifiche, credo sia importante soffermarsi sulle testimonianze di alcune donne, che hanno vissuto l’esperienza diretta della pillola abortiva.
«Senza aspettare i sette giorni previsti, la dottoressa mi ha fatto prenotare all’ospedale e lì, due giorni dopo, mi hanno dato la prima pillola». E ancora: «Mi hanno assicurato che sarebbe stata una cosa semplicissima. E invece stavo malissimo: ho avuto contrazioni per 5-6 ore, vomitavo, ero completamente disidratata. Ho pensato che stavo per morire». «… Prima di dare la pillola abortiva devono essere chiari, si deve sapere a cosa si va incontro. Non si può assolutamente fare intendere che è come prendere l’aspirina» («L’ho vissuta sulla mia pelle: non è come prendere l’aspirina, i medici devono essere chiari», di G. Melina, «Il Messaggero», 08-08-2020). «Ho dovuto affrontarlo da sola: l’aborto, e anche quello che ne è seguito: gli attacchi di panico, la depressione, mesi di terapia psicologica». «Non sono stata preparata a sufficienza, forse perché essendo medico (ortopedico) la collega ha dato per scontato che sapessi a cosa andavo incontro. Spero che alle donne sia spiegato meglio. Ma in realtà ne dubito fortemente». «Credo che dietro i provvedimenti annunciati dal ministero ci siano ragioni economiche». «Non mettiamo l’economia prima delle persone». «Se non fossi stata sola, se avessi saputo a chi rivolgermi, avrei scelto la vita» («Ru486, la drammatica testimonianza di chi l’ha vissuto: donne lasciate sole con il loro dolore» di D. Verlicchi, «Risveglio 2000», 11-08-2020).
«Prima di decidere bisognerebbe calarsi nel dolore delle donne». «Un dolore che è così profondo e senza speranza, perché deriva dal vivere e rivivere la morte di un essere umano, un figlio» («Tra dolore e solitudine, il mio aborto con la pillola» di D. Verlicchi, «Avvenire», 12-08-2020).
È doloroso constatare come sul piano psico-sociale, dinanzi alla cultura dello “scarto”, siamo in presenza di una sclerocardia così grande e di un silenzio passivo, che sembra renderci tutti incapaci di agire di fronte agli attacchi sempre più violenti contro la vita debole e fragile di tanti piccoli innocenti.
All’appello, infatti, risultano tre grandi assenti. In primo luogo, una scienza onesta e giusta, che non ponga gli interessi economici al di sopra del rispetto della dignità della persona umana (la madre e il figlio), abiurando alla sua mission, che è quella di produrre evidenze scientifiche in grado di garantire la tutela della vita e la salute delle persone, soprattutto se fragili e indifese. In secondo luogo, siamo ancora lontani da un’autentica “civiltà della vita e dell’amore”, capace di accogliere in maniera capillare la vita nascente e di sostenere ogni donna nel cui grembo si annuncia un figlio, senza esporla ai rischi di una pratica violenta e pericolosa per la sua salute. E, infine, manca l’uso di un linguaggio veritiero, che con coraggio chiami “figlio” colui che viene visto come una minaccia da eliminare.
Se almeno ricominciassimo rimettendo le parole al loro posto e chiamando con il loro nome questi piccoli che il Signore affida alle cure delle loro mamme, forse potremmo diventare consapevoli del fatto che non siamo i padroni onnipotenti della vita, perché tutti siamo figli. E quelli che stanno nel grembo delle donne sono i nostri fratelli più piccoli, i fratelli che il Padre ci ha affidato, perché li ha amati e desiderati, chiedendo anche a noi di accoglierli e amarli.
di Giuseppe Noia
Docente di Medicina prenatale. Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma