La tutela penale della persona e le ricadute giuridiche dell’ideologia del genere

Prof. Mauro Rouco

1. Il nuovo paradigma dei «diritti umani» e la distruzione giuridica della persona. – L’ideologia postmoderna dei «diritti umani» sta distruggendo la persona umana. Questa affermazione sembra paradossale. Eppure esprime una drammatica verità dei tempi attuali. Il fondamento dei diritti umani nelle correnti relativistiche che hanno imposto la loro agenda ai Governi di tutto il mondo dopo le Conferenze del Cairo del 1994 e di Pechino del 1995 sta esclusivamente nella libertà di scelta del soggetto, nell’autodeterminazione assoluta, nella trasformazione in «diritto umano» di ogni atto libero del soggetto o di ogni atto al cui compimento il soggetto presta il consenso. Secondo questa impostazione, che potenti lobbys cercano di introdurre nelle leggi degli Stati e che, in larga misura, si è guadagnata l’adesione delle Corti di giustizia poste ai vertici degli apparati giurisdizionali[1], il diritto non è più una facoltà morale pertinente intrinsecamente al soggetto, che lo Stato non costituisce, ma riconosce, fornendole protezione coattiva, facoltà pertinente al soggetto per il solo fatto di essere persona, affinché essa realizzi il bene consentaneo alla sua natura di ente razionale capace di conoscere il vero e di attuare il buono e il giusto. Il diritto consisterebbe, invece, nell’impulso del soggetto a scegliere qualsiasi oggetto che egli di fatto sia capace di raggiungere o di produrre, senza alcun limite che non sia costituito dal medesimo impulso di altri soggetti, capaci fattualmente di compiere scelte spontanee. Alla base del diritto starebbe la autodeterminazione assoluta, come spontaneità incoercibile che sorge non coercita dagli impulsi dell’io a soddisfare i propri desideri. Il diritto starebbe nel moto spontaneo del soggetto che si distende senza conoscere il tenore del suo distendersi e che si attua senza una direzione e un termine preciso. In questo modo la spontaneità sarebbe il fondamento e allo stesso tempo l’oggetto del «diritto», che non pretende altro che la autorealizzazione, l’autonomia o l’aumento del proprio potere[2].

Questa concezione dei «diritti umani» ha una immediata ricaduta sul concetto di persona umana. La desostanzializzazione di tale concetto è cosa antica, che risale già agli influssi del nominalismo negli incunaboli della modernità. La persona, come «sostanza individuata di natura razionale», secondo la celebre definizione di Severino Boezio[3], ha mantenuto, comunque, anche nella modernità, nonostante la negazione della fondazione ontologica, un significato etico e giuridico cruciale. La persona, nella filosofia pratica come nel diritto, è rimasta, fino ad anni recenti, persino lungo il corso plurisecolare del positivismo giuridico, il valore centrale dell’ordinamento, siccome soggetto che sussiste in sé, non inerendo ad altro, che costituisce il referente unitario e permanente di una serie di funzioni e di atti che si distendono nel tempo[4]. Anche se negato sul piano metafisico, il concetto di sostanza individuale ha continuato a essere il fondamento della centralità della persona nel diritto[5]. A ciò va aggiunta la seconda nota della definizione di persona, la natura razionale. Non si è negato, invero, fino ad anni recenti, nel campo del diritto, che la persona è, in virtù della sua nascita, e, dunque, per il semplice fatto di esistere, qualitativamente diversa dalle cose, perché fornita di ragione e di intelligenza, perché capace di comunicazione e di relazione, perché dotata di intenzionalità, di libertà, di interiorità e di trascendentalità verso il futuro e verso l’Alto. Persona, dunque, non è un continuum materiale rispetto al mondo; persona non è un evento che si esaurisce nell’attimo del presente; persona non è una qualità trascurabile nel divenire del mondo; persona è, per il diritto ancora oggi vigente, una sostanza individuale appartenente alla natura razionale per il solo fatto di esistere. In quanto tale alla persona spetta una tutela giuridica incondizionata da parte della legge. La nozione postmoderna dei «diritti umani» distrugge la persona umana sul piano pratico e della considerazione giuridica. La persona, infatti, nel nuovo paradigma giuridico, ridotta alla spontaneità della scelta, all’autodeterminazione afinalistica e irrazionale, alla soddisfazione dell’appetizione sensibile, merita protezione da parte della legge non in quanto valore in sé e per sé, per il semplice fatto di esistere, per la sua dignità di ente razionale irripetibile e distinto da ogni altro, per essere un valore inalienabile, ma nella misura in cui  sia capace di esprimersi nel mondo come impulso cosciente rivolto alla soddisfazione di un «io» ripiegato e chiuso in se stesso.

2. La trasformazione dei diritti umani nella seconda metà del ‘900.- La trasformazione dei diritti umani è avvenuta all’interno della cultura occidentale nel corso di un lungo processo, che ha conosciuto i passaggi più importanti nella seconda metà del ‘900.

Non è possibile in questa sede approfondire le gravi aporie teoretiche che caratterizzano i diritti umani proclamati nelle carte dei «diritti», dalla rivoluzione francese in avanti, aporie compendiabili, per un verso, nell’idea riduzionistica di uomo che ne sta alla base e, per un altro verso, nell’idea positivistica del legame inscindibile tra diritto e legge dello Stato. Conta piuttosto prendere atto del fatto che, dopo le tremende aberrazioni prodotte nella prima metà del ‘900 dallo scientismo, dall’eugenismo e dal materialismo, che sfociarono nelle stragi del secondo conflitto mondiale, i Governi intesero darsi una regola comune, oggettiva e universale, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[6].

Quando le Nazioni Unite decisero, nel 1947, di redigere una Dichiarazione dei diritti che potesse definirsi universale l’attenzione si diresse a un modello che avesse a fondamento la dignità incomprimibile di ogni essere umano, per il fatto solo della sua esistenza biologica. Su questa piattaforma, che potremmo definire «basata sul principio di dignità», piattaforma filosoficamente indeterminata[7], che, però, aveva guadagnato l’appoggio del senso comune dei popoli stremati dalle guerre, si formò un consenso amplissimo, comprendente paesi con culture molto diversificate. La Dichiarazione del 1948, pur risentendo di alcuni compromessi tra le varie culture, è caratterizzata dal privilegio accordato a una struttura normativa statale che rispetti la dignità della persona umana; dall’intreccio tra le proclamazioni di libertà civili e politiche di “prima generazione” e il riconoscimento di diritti sociali ed economici di “seconda generazione”; dalla limitazione dei diritti attraverso la previsione di corrispondenti doveri; dall’attenzione prestata ai problemi del nutrimento, dell’alimentazione, della salute e dell’educazione.

Senonché, questa visione dignitaria dei diritti umani è stata completamente rovesciata attraverso un lungo lavorio compiuto da varie potenti correnti culturali, di impronta relativistica e libertaria, che hanno goduto dell’appoggio, fin dagli anni ’50 del secolo scorso, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e della Banca mondiale[8]. Tale lavorio è confluito nella formulazione di un nuovo paradigma etico e giuridico, che si propone come normativo per i Governi di tutto il mondo, avvalendosi delle risoluzioni della Conferenza del Cairo sulla popolazione del 1994 e della Conferenza di Pechino sulle donne del 1995. Gli esiti concettuali e pratici delle due Conferenze sono rispettivamente la erezione di un nuovo diritto, definito come il «diritto alla salute riproduttiva», proclamato al Cairo, e il diritto al «genere», che vuole sostituire la realtà della differenza sessuale tra l’uomo e la donna, proclamato a Pechino nel 1995[9]. La dimensione concettuale e le ricadute pratiche di questi due pretesi «diritti» sconvolgono il quadro tradizionale dei diritti umani e pongono in dubbio la stabilità etica e giuridica, nonché l’esistenza stessa della società. Di essi occorre in particolare interessarsi, al fine di verificare le conseguenze relative alla tutela giuridica della vita e della persona[10], minacciate con sempre maggiore violenza da una cultura che il Magistero della Chiesa ha denunciato per essere promotrice “di morte”, invece che custode della vita[11].

3. Il «diritto alla salute riproduttiva»: la Conferenza del Cairo del 1994. – L’odio contro la generazione umana, sempre affiorante nel corso della storia, si è radicalizzato nell’epoca contemporanea, almeno a partire dalla seconda metà dell’ ‘800, avvalendosi dell’applicazione materialistica delle scoperte scientifiche e del nuovo paradigma dei diritti umani. La separazione tra sessualità e procreazione, attraverso sistemi di «birth control», fu il motivo centrale del paradigma femminista rappresentato nella prima metà del ‘900 dalla figura carismatica di Margaret Sanger (1879-1966)[12]. Essa proponeva una sessualità senza implicazioni generative, ad uso delle classi elevate, mediante il «birth control» volontario, con il duplice vantaggio di realizzare la liberazione sessuale e di soddisfare le esigenze eugenetiche di miglioramento della razza. Per le donne «unfit», povere, deboli di mente, malate, incapaci di associare la sessualità alla contraccezione, i rimedi sarebbero stati la segregazione e la sterilizzazione, come risulta nel Programma ideato dalla Sanger e comparso sulla rivista “Birth Control Review” del 1932 [13].

L’incontro tra eugenismo[14] e femminismo, avvenuto nei primi decenni del ‘900 grazie all’opera di Margaret Sanger, fu un fattore decisivo di successo del movimento, perché coniugò il momento scientistico con quello individualistico, delineando il percorso che il femminismo radicale dell’ultima parte del ‘900 avrebbe intrapreso, dando vita a una seconda fase del processo rivoluzionario. Invero, la separazione tra sessualità e generatività non risponde soltanto a un’istanza eugenistica, riservando la generazione ai soggetti «fit», ma altresì a un’istanza individualistica ed edonistica, assolutizzando nella sessualità la dimensione del piacere e dilatando l’attitudine a usare del sesso come mero strumento per la soddisfazione carnale e psicologica, indipendentemente da responsabilità generative. Come già accennato, la figura e l’opera di Margaret Sanger sono cruciali per spiegare il passaggio da un eugenismo scientista, a suo modo autoritario, a un eugenismo libertario, basato sulla libertà di scelta, come diritto assoluto della donna di liberarsi dalla schiavitù della riproduzione. La donna, in quanto proprietaria del suo corpo e della sua sessualità, dovrebbe godere del piacere fornito dal corpo come un diritto assoluto. Ella non sarebbe libera se non nella misura in cui può decidere liberamente se essere madre o non esserlo: l’accesso alla contraccezione e l’aborto sarebbero diritti individuali strumentali alla realizzazione del suo diritto di scelta e di libertà. Dall’incontro tra il diritto di scelta assoluto e il diritto alla salute è nato il post-moderno «diritto fondamentale alla salute riproduttiva», proclamato nella Conferenza intitolata “Popolazione e Sviluppo”, tenutasi al Cairo nel 1994. Le risoluzioni di questa Conferenza, frutto di un «consenso» internazionale artificiosamente suscitato, sono state presentate come aventi carattere «normativo» e non soltanto tecnico per i Governi, onde sia l’azione internazionale degli organismi facenti capo alle Nazioni Unite, sia dei singoli Stati è stata dettata, de facto, da princìpi e da regole che mai sono state sottoposte al controllo democratico dei Parlamenti dei singoli paesi.

La Conferenza del Cairo non dimentica l’obiettivo del contenimento demografico, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, ma cerca di realizzarlo partendo «dal basso», introducendo il concetto del diritto alla salute riproduttiva e dei diritti riproduttivi dell’individuo. In cosa consista esattamente tale diritto non emerge chiaramente dal testo normativo. Il paragrafo 7.2 del documento della conferenza del Cairo contiene non tanto una definizione, quando una descrizione, che pone sullo stesso piano le possibilità di scelta più contraddittorie, come l’aborto e la maternità, la sterilizzazione volontaria e la fecondazione in vitro, il libertinaggio e la famiglia[15]. Al di là, tuttavia, dell’apparente confusione, il principio che regge il concetto della salute riproduttiva è il diritto assoluto della donna alla scelta individuale in funzione del benessere e della soddisfazione fisica e psichica relativa all’esercizio della sessualità, indipendentemente dalla valenza riproduttiva dell’atto sessuale, con la completa indifferenza per la vita degli embrioni e dei soggetti ancora non nati nel grembo materno, come se essi fossero una quantité négligeable.

Il legame tra la massimizzazione delle chances ricollegate al piacere carnale e l’obiettivo eugenistico è strettamente inerente al  concetto di salute riproduttiva, che costituisce, in ultima analisi, la vera ratio costitutiva e il fondamento dell’istituto. Ciò che caratterizza il nuovo modello eugenistico rispetto all’antico è la sostituzione del protagonista del processo, che passa dal potere scientista incarnato nelle istituzioni sanitarie alla donna che rivendica il «diritto» a divenire oggetto e vittima della manipolazione tendente a privarla del dono della maternità. Invero, dentro la salute riproduttiva stanno inscritti un numero tendenzialmente illimitato di «diritti», suscettibili di continuo accrescimento in funzione della dilatazione delle tecnologie artificiali riproduttive e antiriproduttive.

L’orizzonte concettuale è segnato da tre fondamentali elementi: la negazione del diritto alla vita del concepito, vuoi nell’utero vuoi in provetta; la separazione totale tra la sessualità, vista esclusivamente nel momento ludico e di soddisfazione fisio-psichica, e la fecondità; l’indirizzo favorevole a modalità di riproduzione selettiva, sia nel caso in cui il processo inizi nel corpo della donna, sia che inizi all’esterno di esso. Si considerino i «diritti» particolari che germinano logicamente dal «diritto alla salute riproduttiva», alcuni scritti espressamente nel documento del Cairo, altri sviluppati successivamente. Anzitutto il diritto all’informazione e all’accesso gratuito alla gamma completa di contraccettivi, ivi compresi gli abortivi precoci, come sono quelli riconducibili alla «contraccezione d’urgenza», alla «pillola del giorno dopo», alla RU 486; il «diritto» alla sterilizzazione; il «diritto» all’aborto «senza rischi» praticato a spese della collettività; il «diritto» alla fecondazione in vitro; il «diritto» all’informazione e alla fornitura di tutto ciò che concerne i diritti sessuali e riproduttivi; il «diritto», persino ad avere un figlio «sano». «Diritto», quest’ultimo che postula il «diritto» alla selezione prenatale, se la fecondazione avviene nel corpo della donna; ovvero alla distruzione degli embrioni «unfit», se la fecondazione è in vitro. Traspare con chiarezza dal documento del Cairo che il concetto di salute riproduttiva presenta due facce: l’una, fondata sull’utopia postmoderna del diritto di scegliere e dell’assoluta autonomia dell’individuo; l’altra, fondata sulla pratica postmoderna del dominio scientistico delle tecnologie sulle varie sequenze relative al sorgere e allo svilupparsi della vita. Il controllo tecnologico sulla vita è l’orizzonte finalistico della salute riproduttiva; il «diritto» arbitrario di scelta individuale, alimentato dalla sensualità e dall’orgoglio, è lo strumento di cui lo scientismo si avvale per ottenere il controllo potestativo sulla vita umana, che si arroga il «diritto» di giudicare quale vita meriti e quale non meriti di vivere[16]. Il «diritto alla salute riproduttiva» costituisce l’espressione giuridica di sintesi del nuovo paradigma etico: l’interesse al piacere, declinato secondo la misura della libera scelta individuale, nonché l’interesse ad avere o a non avere un figlio, fondano il «diritto» a ogni forma di contraccezione, anche abortiva, nonché alla sterilizzazione, all’aborto «sicuro», cioè privo di rischi per la salute di chi lo richiede. L’interesse alla salute, intesa come condizione di pieno benessere fisico e psicologico della donna, fonda analogamente il «diritto» all’aborto; l’interesse ad avere un figlio, come e quando si vuole e con chi si vuole, fonda il diritto alla riproduzione artificiale; l’interesse individuale ad avere un figlio sano e l’interesse sociale a evitare i costi per la cura dei soggetti fisicamente e psichicamente inadeguati fondano il «diritto» alla selezione prenatale, nonché alla distruzione degli embrioni dotati di qualità inferiori. L’interesse della scienza al progresso scientifico fonda il diritto alla sperimentazione sugli embrioni, alla loro utilizzazione e alla loro distruzione.

4. Il «diritto al genere»: la Conferenza di Pechino del 1995. – Poste nella Conferenza del Cairo del 1994 le basi del nuovo modello etico del «diritto alla salute riproduttiva», la conferenza di Pechino del 1995 sulle donne compì un passo ulteriore nella stessa direzione, di carattere pressoché ultimativo, erigendo il concetto di «genere» come pilastro normativo, politico, sociale ed economico, del nuovo ordine mondiale ed elaborando una Piattaforma di Azione, contenente l’invito ai Governi di «diffondere l’Agenda di Genere» in ogni programma politico e in ogni istituzione sia pubblica che privata. Da allora molti Governi – fin dall’inizio, con grande dispendio di risorse economiche, l’Amministrazione Clinton, il Governo canadese e l’Unione europea – nonché la gran parte delle agenzie dell’ONU si sono impegnate a infondere nelle istituzioni la «prospettiva di genere»[17]. Nelle parole dell’Istituto internazionale di ricerca e di training per l’avanzamento delle donne (INSTRAW), che fa parte dell’ONU, la «prospettiva di genere» è definita come l’azione volta a “[…] distinguere tra quello che è naturale e biologico da quello che è costruito socialmente e culturalmente, e nel processo rinegoziare i confini tra il naturale – e la sua relativa inflessibilità – e il sociale – e la sua relativa modificabilità”[18].

Oggi siamo sotto gli effetti ricollegabili all’attuazione dell’«Agenda di genere» dettata a Pechino nel 1995, mai sottoposta all’esame del Parlamento e quasi sconosciuta ai vari popoli del mondo, che subiscono, di tanto in tanto, gli effetti dei mutamenti normativi settoriali, rispondenti alla strategia di un piano globale ignoto. Michel Schooyans espose con lucidità, già nel 1997, quale fosse la “Coalizione ideologica del «gender»”, ovvero il complesso delle istanze filosofiche e culturali che, in un’ottica di ostilità alla vita, hanno fornito i temi cruciali concorrenti alla formazione del concetto di «genere». Egli ha messo in evidenza che in tale ideologia sono coalizzate, secondo una moderna rivisitazione, frammenti del socialismo e del liberalismo, volti a «giustificare» la decostruzione dei fondamenti della vita sociale nel disprezzo della vita umana: “Le due ideologie in oggetto sono coalizzate verso questo scopo; e ciò spiega la violenza, senza precedente nella storia, che si scatena contro la vita umana”[19]. Riprendendo i temi svolti da Friedrich Engels, con l’istanza socialistica viene posto al centro della dinamica sociale il nucleo originario della lotta di classe, che sarebbe costituita dall’antagonismo fra l’uomo e la donna, espresso nel matrimonio monogamico e nell’oppressione della donna da parte dell’uomo[20]. Le correnti neomalthusiane d’impronta utilitaristica insistono sul «diritto» dell’uomo di esercitare il potere sulla trasmissione della vita, nonché sul «diritto» al piacere come bene per eccellenza. Va aggiunta a ciò l’influenza dello strutturalismo, che rifiuta di ragionare in termini di natura umana e vede in essa una semplice struttura, oggetto di scienza, costruita attualmente su elementi che debbono essere «decostruiti» per ricondurre l’uomo alle forme di vita animale e vegetale e, in ultima analisi, alla materia. Passaggio decisivo che l’umanità post-moderna deve compiere nell’opera di «decostruzione» è eliminare le differenze tra i sessi, che non sarebbero inscritte nella natura, ma sarebbero frutto esclusivo dello sviluppo culturale nella storia. Secondo l’ideologia del «genere» spetta alla donna condurre in prima fila la lotta di liberazione, non soltanto con l’eliminazione dei privilegi maschili, ma, soprattutto, con l’abolizione di tutte le differenze tra uomini e donne. La donna, in particolare, dovrebbe rifiutare la sua vocazione di madre, perché in ciò si radica l’ingiustizia sociale che le impedisce di essere uguale all’uomo in termini di funzione sociale. Come dice Schooyans, “Né l’eterosessualità né la procreazione che vi è legata possono pretendere di essere «naturali»; essi sono prodotti culturali «biologizzati». E’ la società che ha inventato i ruoli maschile e femminile e la famiglia, che ne è conseguenza. Occorre dunque instaurare una cultura che nega una qualsivoglia importanza alle differenze genitali. Con la scomparsa di queste differenze spariranno il matrimonio, la maternità, la famiglia biologica radicata. Questa cultura ammetterà tutti i tipi di pratica sessuale, correlativamente, rifiuterà ogni forma di repressione sessuale”[21].

5. Il «diritto al genere»: la distruzione della persona. – La «prospettiva di genere» è ancora più profonda e radicale di quanto possa apparire alla luce dell’esposizione precedente. Dato per acquisito, sul piano filosofico e giuridico, che il diritto non sia una facoltà morale intrinsecamente inerente al soggetto per conseguire il bene conosciuto con la ragione, bensì l’autodeterminazione assoluta del soggetto, senza alcun limite che non sia costituito dalla medesima libertà di scelta degli altri uomini, discende in modo logicamente necessario che i soggetti umani vanno distinti in due categorie, quelli pleno iure, in quanto capaci di esprimere e di attuare delle scelte, e quelli con diritti limitati, in quanto incapaci attualmente di compierle. Agli appartenenti a questa seconda categoria possono essere riconosciuti degli interessi, mai però tali da implicare la protezione assoluta della legge. Questi interessi sono, perciò, suscettibili di risultare subvalenti rispetto ai «diritti» di cui sono portatori i soggetti pleno iure. Essi non godono della protezione della legge in quanto titolari di una dignità inalienabile ricollegata alla loro natura umana, bensì di una protezione relativa e condizionata, quella che si riserva alle «cose» socialmente apprezzabili fin tanto che non urtano i «diritti» dei soggetti «forti».

Si apre così un processo volto alla distruzione della persona umana e alla relativizzazione utilitaristica ed edonistica della tutela giuridica. La prospettiva di genere mira, invero, alla decostruzione integrale dell’uomo e alla sua riduzione alla materia prima, facendo svanire l’esigenza etica della protezione giuridica della persona umana in quanto tale, come soggetto dotato di dignità inalienabile e non negoziabile. Ammissibile nel nuovo paradigma giuridico è la protezione non del soggetto, come suppositum o persona, bensì, esclusivamente, della sua libertà di scelta e di autodeterminazione, che è ciò che empiricamente affiora alla superficie della storia, essendo vietato ogni discorso e, conseguentemente, ogni fondazione metafisica, ontologica, etica e giuridica, dei diritti della persona umana.

Il paradosso consiste in ciò, che attraverso la promozione del «diritto alla scelta» viene negata la tutela della stessa persona umana. Il processo che conduce alla scomparsa della tutela della persona è perfettamente analogo al processo che porta, con l’ideologia del «genere», alla scomparsa del sesso. Il concetto di «genere» non può essere spiegato se non per opposizione al concetto di sesso. A tale opposizione va ricondotta, nel linguaggio scientifico degli ambienti ristretti della gender identity research, l’origine di tale ideologia. Come dice Reimut Reiche, sociologo e psicoanalista tedesco di formazione marxista, “[…] dove si parla di gender viene rimosso il sex[22]. L’eliminazione del sesso va di pari passo con l’eliminazione della generazione eterosessuale, in forza della convinzione che per distruggere il «primato dell’eterosessualità» – che ineludibilmente indica l’uomo essere «maschio» e «femmina»[23] – occorre distruggere qualsiasi legame tra il sesso e la generazione.

Il percorso è svolto all’interno dei gender movements non tanto e non soltanto per il riconoscimento dei «diritti» delle «minoranze sessuali», quanto soprattutto per realizzare l’obiettivo della dissoluzione dell’identità dell’uomo e della donna. La lotta è per la distruzione della persona. Per le correnti di pensiero che si caratterizzano come «costruttivistiche» o come «decostruttivistiche», tutta la realtà, sia essa psichica o fisica, non è riconducibile a fatti oggettivi o a cose che possono rivendicare lo statuto della conoscibilità. Non esiste il sesso, come sesso del corpo, né il «genere», come avente radice nel sesso; esiste soltanto  il «genere», come sesso costruito socialmente. Occorre lottare, all’interno del gender constructivism, contro la «priorità» della natura, e, quindi, del sesso rispetto al genere. Il sesso, «purtroppo», ritorna permanentemente, come qualcosa di «essenzialistico», che si ripresenta continuamente, come una materia che si stabilizza nel tempo producendo l’effetto di fissità, di delimitazione e di superficie. Va allora individuato e sconfitto l’agente della protezione forzata della materialità. Avvalendosi delle teorie del potere di Michel Foucault (1926-1984)[24], il femminismo radicale individua il generatore del potere, della costrizione e della materia nella forma «etero». Sarebbe questa la forma a priori del potere, che produce disagio, svolgendo una funzione coattiva, repressiva e limitativa della illimitata libertà di scelta dell’individuo. Contro la forma strutturante «etero» – che rappresenta il «male», alla maniera degli gnosticisti antichi – gli agenti della dissoluzione sono i corpi che si muovono «al di fuori della norma», che Judith Butler individua con le espressioni dello slang in drag (travestito), fag (checca) e queer (deviante)[25]. La lotta del femminismo radicale non si limita a indurre la società al riconoscimento giuridico dei «diritti delle minoranze sessuali», ma va oltre, fino a mostrare che l’identità non è più il «maschio» o la «femmina», bensì il «genere», come incessante decostruzione e ricostruzione, come qualcosa di sempre nuovo, come indefinitamente plurale, come qualcosa che va al di là del «2» dell’uomo e della donna. Il «genere», dunque, senza base nel sesso, come molti generi, in continua evoluzione, nel tempo, durante la medesima esistenza, in cui l’individuo via via si riconosce, senza riconoscersi in un sesso, essendo la sua identità null’altro che continua mutazione. Il «genere» non è un genere, ma molti generi. Molti generi significa che qualsiasi attuale condizione sessuale “cancella da sé il «sessuale» e si presenta a nome proprio e, in definitiva, solo come «io-per me stesso»”[26]. L’esito è l’ «io per me stesso», la totale chiusura di ogni singolo individuo agli altri individui; la chiusura, soprattutto, dell’orizzonte nel quale la persona come «maschio» e la persona come «femmina» si incontrano nell’atto generativo.

6. La costruzione dell’ambiente per la cosificazione dell’uomo e della donna. – Per la decostruzione dell’individuo separato dal sesso e la ricostruzione dell’individuo secondo il «genere» occorre creare un ambiente sociale adatto a cui si perviene attraverso una serie di dispositivi che Reiche ha definito di “omosessualizzazione della sessualità[27], consistente tanto nella uniformazione dei sessi tra loro, quanto nell’avvicinamento del mondo e della cultura eterosessuale al mondo e alla cultura omosessuale. L’omosessualità, dunque, deve costituire, avvalendosi della forma giuridica e con il potente aiuto della comunicazione mass-mediatica, il motore per l’attuazione dei modelli omosessuali di vita, per la costruzione del nuovo dis-ordine etico mondiale. La cultura della maggioranza eterosessuale e il suo stile di vita devono allinearsi a quelli della minoranza omosessuale: le norme giuridiche che introducono il divieto della cosiddetta omofobia vanno in questa direzione, sostanzialmente persecutoria nei confronti dello stile di vita delle maggioranze. Le modalità di vita pioneristicamente adottate nella cultura omosessuale vengono promosse come modello della vita eterosessuale, per propiziare un allineamento culturale, prodromico all’omosessualizzazione della sessualità.

I segnali di questa omosessualizzazione sono evidenti nella società contemporanea per chiunque abbia conservato uno sguardo libero dalla fascinazione massmediatica. Il primo segnale, data per scontata la sostituzione del concetto di famiglia a quello di convivenza, è il passaggio dal rapporto tendenzialmente monogamico, segnato dall’eccezione del divorzio, alla sequenzialità ininterrotta di rapporti diversi. Varie costellazioni semantiche designano questa nuova configurazione del rapporto di coppia: famiglia del fine settimana, genitori single, rapporto di coppia a tempo determinato, concubinato tra pensionati, biografia a catena. Il diritto avrebbe il compito di riconoscere le nuove configurazioni sociologiche, adattando gli istituti giuridici all’attuazione dei «diritti» delle coppie, in funzione del consenso reciproco alla convivenza fin tanto che gli interessi comuni sono condivisi. In questo quadro si comprendono le spinte verso la parificazione delle convivenze registrate alla famiglia; la riduzione dei termini e delle formalità per accedere al divorzio; la semplificazione delle procedure e dei requisiti per ottenere i sussidi pubblici e la reversibilità delle pensioni. Il modello è la coppia omosessuale. Come in quest’ultima, anche nella coppia eterosessuale vanno rideterminate, di volta in volta, in base allo scambio dei consensi, le condizioni della convivenza, soprattutto con riferimento alle pratiche sessuali – in quale luogo, con chi e quanto spesso – che sono compatibili con la permanenza del rapporto.

Il secondo segnale è il passaggio della coppia alla mancanza di figli. Come la coppia omosessuale è sterile, così deve essere per la coppia eterosessuale. Poiché il figlio dipende dal sesso e poiché il «genere» sostituisce il sesso, la procreazione non è più l’opportunità precipua della coppia. Il figlio, se il soggetto lo desidera, verrà «fatto» al di fuori del rapporto di coppia, attraverso la riproduzione con strumenti tecnologici. Il diritto dovrebbe rincorrere questo desiderio, inteso come «diritto» del singolo ad avere un figlio, riconoscendo l’accesso alla riproduzione artificiale non soltanto alla coppia eterosessuale, ma altresì alla coppia omosessuale e al single.

Il terzo segnale è il passaggio dalla stabilità alla mobilità. Il fenomeno è visibile particolarmente nelle classi elevate, per ovvie ragioni economiche. La sfera della circolazione, sia per ragioni professionali che per ragioni di svago, prevale sulla stabilità, distruggendo la coppia stabile non soltanto in senso diacronico, ma anche in senso spaziale. La coppia si automodifica continuamente, avvalendosi dell’autosufficienza del reddito di ciascun single, sul modello del potenziale di mobilità degli omosessuali, la cui biografia empirica rivela una circolazione orizzontale assai spiccata.

Il quarto segnale è il passaggio da una sessualità che vede al suo centro il rapporto genitale, come espressione della coniugalità, ad una sessualità pandemica, che si esprime in una pluralità di pratiche paracoitali, che vanno – sotto la guida della pornografia – dall’onanismo alle comunicazioni sessuali designate come cybersex e sesso virtuale, fino alle esperienze di gruppo di tipo sadomasochistico. Il quinto segnale è la femminilizzazione dell’uomo e la mascolinizzazione della donna, sempre più dipendenti, nelle pratiche dei fitness-centers e nelle attività sportive, da un identico modello androgino. L’uomo, in questa prospettiva, deve proporsi, come la donna, in modo sessualmente attraente, dando risalto sessuale al corpo e portando sul proprio corpo attributi-feticcio, come gioielli, anelli e orecchini, allo stesso modo della donna. Quest’ultima, all’inverso, deve riscrivere il proprio corpo secondo strutture muscolari e articolazioni fisiche che l’avvicinano al corpo maschile.

Il processo descrive una lotta contro l’uomo in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio. Il processo ha un evidente significato, oltre che antropologico e filosofico, anche teologico, che ripete, con modalità e strumenti scientistici, la lotta contro la famiglia e la generazione che imperversò nei primi secoli dell’era cristiana.

Sorsero, invero, fin dal secondo secolo della nuova era dottrine, variamente articolate sul piano filosofico, che focalizzavano nella fecondità della relazione coniugale tra l’uomo e la donna la fonte di ogni male[28].

L’odio contro la generazione, che si espresse nei primi secoli del Cristianesimo come motivo comune alle varie eresie gnosticistiche, rivela una particolare malizia. Rifiutando, invero, il dono fatto da Dio agli uomini, di essere stati creati «maschio» e «femmina», respinge in radice il bene della complementarietà sessuale e del sostegno spirituale tra i sessi in vista della pro-creazione, cioè della vocazione, inscritta nella biologia, nella psicologia e nell’anima spirituale dell’uomo e della donna, a collaborare con Dio nella moltiplicazione del genere umano e nella partecipazione degli uomini alla vita divina. Nella generatività umana, dipendente dalla fusione in unum dei corpi, v’è un segno finito della infinita generatività di Dio, che è Amore infinito che genera dall’eternità il Figlio. Amore reciproco tanto grande che dal Padre e dal Figlio procede una terza persona, lo Spirito Santo. Dio avrebbe potuto creare l’uomo tutto intero, e non soltanto l’anima, in modo diretto, senza bisogno del suo apporto, facendolo gemmare dai fiori o spuntare dalle pietre. Egli ha voluto, invece, nella sua eterna sapienza, limitare la sua infinita potenza creativa ricollegandola all’atto generativo dell’uomo e della donna, affinché essi potessero, grazie a questo dono immenso, collaborare con lui nel dare la vita a nuovi uomini e donne, partecipando così alla sua opera creativa.

7. La relativizzazione della vita: le conseguenze sul piano della tutela giuridica. – Come già osservato, la concezione postmoderna dei «diritti fondamentali» relativizza la tutela della vita. La protezione più ampia è assicurata ai soggetti «fit», titolari di «diritti», in quanto capaci di atti spontanei di autodeterminazione. Agli altri soggetti, incapaci di tali atti, non è garantita la piena tutela da parte del diritto. Mi preme qui disegnare, in conclusione, lo scenario attuale di relativizzazione della tutela della vita e della riduzione della persona a cosa, con particolare riferimento alla condizione giuridica del nostro paese.

7.1. Le minacce alla vita. – Gli obiettivi della rivoluzione antiumana si muovono in due direzioni. In primo luogo, assistiamo all’approfondimento e all’attuazione, fino alle estreme conseguenze logiche, del concetto di diritto come espressione di autodeterminazione assoluta. Chi non è in grado di esprimere atti di coscienza è fuori dal circuito della protezione giuridica; simmetricamente, ogni evento che sorge da un atto spontaneo della coscienza sveglia è giuridicamente consentito, in quanto espressione di un «diritto fondamentale» del soggetto. A questa stregua, l’aborto deve diventare, anche normativamente, un «diritto» della donna, indipendentemente dalla sussistenza di «indicazioni» o dalla limitazione della sua praticabilità in funzione di «termini». Le previsioni limitatrici previste attualmente dalla legge 22.5.1978, n. 194 debbono essere rimosse o, comunque, aggirate attraverso il tendenziale passaggio all’aborto precoce e all’aborto chimico, in ottemperanza alla direttiva sull’aborto «sicuro» di cui alla risoluzione del Cairo del 1994. Qualcuno si è stupito della particolare acrimonia con cui gli esponenti della cultura radicale hanno aggredito le autorità politiche che hanno inteso recentemente garantire il rispetto dei requisiti della legge n. 194/1978 anche con riferimento all’uso dell’abortivo chimico denominato RU 486. Lo stupore nasce dall’ignoranza dello stato di avanzamento del processo rivoluzionario e dalla attribuzione di un carattere «normativo» alle risoluzioni delle Conferenze del Cairo e di Pechino. Ogni atto contrario all’intronizzazione dell’aborto come «diritto fondamentale» è, allo stato, eroico atto di resistenza all’ingiustizia immanente ai falsi princìpi viventi nello pseudo diritto internazionale delle organizzazioni che si ispirano alle agenzie dell’ONU.

Sul versante del termine della vita umana, forti pressioni massmediatiche, alimentate da una parte cospicua degli scienziati e dei giuristi, inducono a iscrivere come «diritto fondamentale» nel catalogo dei diritti il «diritto» a mettere fine alla propria vita, con la correlativa previsione dell’obbligo dei terzi, in particolare, dei medici e del personale sanitario, di aiutare il soggetto, liberamente autodeterminatosi alla morte, ovvero autonomamente candidatosi ad essere ucciso attraverso l’espressione di un consenso anticipato alla propria morte, a morire in attuazione del suo «diritto fondamentale». Le resistenze a una simile progettualità, che si sono concretizzate in atti legislativi di un ramo del Parlamento, sono presentate pubblicamente dai sostenitori dell’ideologia radicale come contrarie agli obblighi internazionali dell’Italia ovvero come contrarie alle decisioni giurisdizionali asseritamente assunte alla luce del diritto costituzionale vigente, in virtù del rilievo che l’art. 32 della Costituzione, contrariamente alla sua lettera, alla sua storia e alla sua ratio, costituirebbe la fonte del «diritto assoluto all’autodeterminazione». Sul fronte degli «unfit», sempre più periclitante è la condizione dei bambini anencefalici e dei soggetti decorticati, la cui esistenza in vita, ancora garantita dalla legge, è contestata in forza di un concetto di morte che dovrebbe ricomprendere tutte le situazioni in cui è persistentemente assente la funzione della coscienza.

7.2. Le minacce all’umanità. – La seconda direzione in cui si muove la rivoluzione antiumana è l’attuazione di tutte le pretese discendenti dal «diritto al genere». L’orizzonte giuridico ultimo di queste pretese è la separazione tra la generazione, da un canto e, dall’altro, l’incontro unitivo dei corpi sessuati come «maschio» e come «femmina». Gli individui, come «genere», rectius, come «molti generi» non debbono pensare e agire in vista della procreazione. Essa non è affar loro. Tale compito spetta alla scienza e alle tecnologie che ne derivano. Certo, l’idea trascendentale «etero», che ritorna, quasi come anamnesi incancellabile della legge inscritta nella natura dell’uomo, costituisce un ostacolo allo sviluppo integrale dell’ideologia radicale. Essa ritorna sempre a imbrogliare le carte e a «eterosessualizzare» la sessualità, con l’inconveniente di una possibile generazione causata dall’incontro unitivo del «maschio» e della «femmina». Per evitare ciò occorre, come supra si è visto, «omosessualizzare» la sessualità con dispositivi sempre più invasivi, che condizionano psicologicamente, economicamente e culturalmente le maggioranze ancora eterosessuali. Ma ciò non basta. Contro la minaccia incombente proveniente dall’idea trascendentale «etero» occorre l’intervento della scienza, che alimenta il timore per il rischio che, con la procreazione per via unitiva dei sessi, gli uomini diano l’esistenza a soggetti «unfit», consentendo così a una razza umana geneticamente imperfetta di perpetuarsi indefinitamente. Affinché la scienza possa svolgere appieno il suo compito purificatore dei difetti della natura – si ricordi sempre che, in questa prospettiva, la natura è malvagia, perché creata dal demiurgo cattivo – dunque, affinché la scienza possa attuare la liberazione dell’individuo dal giogo della natura, occorre guadagnare una condizione giuridica di libera produzione e di piena disponibilità degli embrioni umani. Su questa base elementare e minimale di materia umana la scienza ricercherà i dispositivi tecnici migliori grazie ai quali la tecnologia provvederà alla generazione di soggetti «fit». L’individuo, ridotto nella sua soggettività di «genere», di «molti generi» potrà pensare a soddisfare ludicamente le proprie fantasie di  «genere», senza alcuna preoccupazione per i problemi implicati dalla generazione.

Come è evidente, il nuovo fronte di lotta – e, correlativamente, di protezione della persona – si sposta sul piano dell’embrione. La condizione degli embrioni umani è anch’essa a rischio sotto la minaccia della scienza e della giurisprudenza. La legge 19.2.2004, n. 40, che detta norme in materia di procreazione medicalmente assistita, pur avendo superato indenne la prova di un referendum abrogativo, è sottoposta a colpi di scure da parte di giudici, ordinari e costituzionali, che vedono impedito dalle sue norme il pieno espletamento dei «diritti fondamentali». Questa legge è particolarmente odiata dalla rivoluzione radicale per una serie di ragioni, che enumero sinteticamente: 1. perché assicura i diritti del concepito, dunque, dell’embrione; 2. perché limita il ricorso alla procreazione medicalmente assistita ai casi in cui non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità; 3. perché vieta la procreazione medicalmente assistita «eterologa», preservando in qualche modo il significato procreativo alla coppia unita da un vincolo stabile; 4. perché vieta la procreazione medicalmente assistita ai single, nonché alle coppie i cui componenti non siano entrambi viventi, alle coppie composte da soggetti dello stesso sesso, alle coppie che non siano unite da coniugio o da una convivenza accertata; 5. perché vieta la organizzazione, la pubblicizzazione e la commercializzazione di gameti o di embrioni e la surrogazione di maternità; 6. perché vieta i processi volti a realizzare la clonazione; 7. perché vieta la sperimentazione su ciascun embrione umano; 8. perché limita la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano al perseguimento di finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla salute e allo sviluppo dell’embrione stesso; 9. perché vieta la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione; 10. perché vieta ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti, nonché interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminare caratteristiche genetiche.

Le disposizioni della legge n. 40/2004 costituiscono lo sbarramento estremo contro le pretese ultimative provenienti dalla proclamazione del «diritto alla salute riproduttiva» e del «diritto al genere». L’obiettivo delle correnti culturali che hanno imposto la loro agenda ai Governi consiste nella riduzione dell’umano a res e nella separazione «normativa», e non solo fattuale, tra generazione e unione sessuale, privando la donna e l’uomo della loro «maternità» e «paternità». Il passaggio più urgente che ora deve essere compiuto, secondo queste correnti, è la libera produzione, manipolazione e distruzione degli embrioni. Il secondo passaggio sarà la colpevolizzazione, per motivi eugenistici, di coloro che oseranno continuare a generare attraverso l’unione sessuale o, almeno, di coloro che si rifiuteranno di sottoporre gli embrioni alla selezione preventiva, per il rischio che diano la nascita a soggetti «unfit». Un passaggio ulteriore, che si intravede in lontananza, è la clonazione umana, che sancirebbe definitivamente l’appropriazione della generazione da parte della scienza.

Il  Magistero della Chiesa, con mirabile antiveggenza, che costituisce il segno evidente della permanente assistenza dello Spirito alla sua Chiesa, ha profetizzato, con un insegnamento integrante uno splendente mosaico d’oro zecchino, che l’unione dei sessi, inscritta nell’ordine della creazione come dono di Dio all’uomo, deve restare aperta alla fecondità[29] e che la generazione dei figli deve realizzarsi attraverso l’unione dei corpi[30], come frutto di un amore tra l’uomo e la donna che costituisce simbolo del mistero grande dell’amore di Cristo per la sua Chiesa[31], mistero rimasto per lunghi secoli nascosto e rivelato nei tempi ultimi come il «mistero della salvezza delle nazioni».

Mauro Ronco


[1] E’ in corso l’opera di smontaggio, invero, da parte delle Autorità giudiziarie, a vari livelli di competenza, delle leggi nazionali che pongono limiti oggettivi alle pretese soggettive di autodeterminazione assoluta di trasformarsi in «diritti fondamentali». Vanno al riguardo menzionate la sentenza 1° aprile 2010 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), I Sezione, SH e altri/Austria, che ha dichiarato la contrarietà ai «diritti umani fondamentali» di cui agli artt. 8 e 14 CEDU (diritto al rispetto della vita  privata e familiare e divieto di discriminazione) delle limitazioni previste dalla legge austriaca alla fecondazione eterologa; la sentenza della Corte Costituzionale italiana 08.05.2009, n. 151, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, co. 2, della legge italiana 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», nonché del medesimo art. 14, co. 3 della stessa legge, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna, per violazione degli artt. 2, 3, 13 e 32 Costituzione; la sentenza TAR Lazio, Sezione III quater, 21.01.2008, n. 398, che ha annullato le Linee Guida di cui al D.M. 21.07.2004 nella parte contenuta nelle misure di Tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro dovrà essere di tipo osservazionale, sollevando al contempo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 2 e 3, della L. n. 40  del 19.02.2004 per contrasto con gli artt. 3 e 32 della Costituzione. I Giudici di merito italiani stanno sollevando a ripetizione questioni di illegittimità costituzionale contro la legge n. 40/2004 nella parte in cui vieta la fecondazione artificiale eterologa (Trib. Firenze ord. 1 – 13.09.2010; Trib. Catania 21.10.2010 per asserito contrasto con gli artt. 117, 2, 3, 31 e 32 Costituzione, nonché 8 e 14 CEDU come interpretato dalla sentenza della Corte EDU dell’1.4.2010 emessa nel caso SH e altri contro Austria). Si tratta di iniziative che si rincorrono le une con le altre e che puntano a smembrare le normative interne protettive, per un verso, dell’embrione e, per un altro verso, della famiglia.

[2] Per una chiarificazione filosofica fondamentale cfr. F. D’AGOSTINO, Autodeterminazione: le paranoie della modernità, Prolusione al 61° Convegno nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI) su “Autodeterminazione. Un diritto di “spessore costituzionale”?”, tenutosi a Roma dal 5 al 7 dicembre 2009, in Med. Mor., 2009, 6, 1055-1064.

[3] Cfr. S. BOEZIO, Contra Eutychen et Nestorium, III, 1-6; De duabus naturis et una persona Christi, 3,64, co. 1345. Per l’approfondimento della definizione nell’ambito della dottrina tomista e per le implicazioni del concetto di persona cfr. L. PALAZZANI, I significati del concetto filosofico di persona e implicazioni nel dibattito bioetico e biogiuridico attuale sullo statuto dell’embrione umano, passim, in specie, 56 ss., cui rinvio per l’apparato bibliografico.

[4] Per la frantumazione del soggetto nelle attuali tendenze del naturalismo cfr. E. RUNGGALDIER, Aktuelle naturalistische Tendenzen in der Deutung des Menschen, in Der neue Naturalismus – eine Herausforderung an das christliche Menschenbild, Stuttgart Berlin Köln, 1999, 15-29.

[5] Questo asserto non sembri giustificare il positivismo giuridico, che ha guastato per secoli la retta comprensione del diritto e ha eroso progressivamente le basi della giustizia. Valga soltanto per ribadire come la lotta contro i valori inscritti nella natura umana è un processo lungo e accidentato. Il positivismo giuridico è servito per distruggere la naturalità del diritto e il suo legame con la virtù della giustizia nelle sue tre forme tradizionali; sradicare del tutto il contenuto del diritto soggettivo dal bene oggettivo è compito che spetta alle élites intellettuali di oggi, che occupano le cattedre e le corti di giustizia, alimentate dalle concezioni postmoderne, antipositivistiche e costituzionalistiche della normatività.

[6] Cfr. per tutti M.A. GLENDON, La visione dignitaria dei diritti sotto assalto, in Il traffico dei diritti insaziabili, a cura di L. Antonini, Soveria Mannelli, 2007, 59. La visione dignitaria dei diritti umani, fondata, cioè, sulla inalienabile dignità di ogni persona umana, in quanto creata a immagine e somiglianza di Dio, è oggetto costante del Magistero della Chiesa. Valga al proposito ricordare due fondamentali testi di Papa Benedetto XVI, Il Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia romana, per la presentazione degli auguri natalizi, del 22.12.2005, in Insegnamenti di Bendetto XVI, I, 1018-1032, ID., Enciclica «Spe salvi» sulla speranza cristiana, del 30.11.2007, nei quali sono focalizzati due diversi modelli di Modernità e, conseguentemente, di fondamento dei diritti umani. Sul tema, con particolare riferimento ai discorsi di Benedetto XVI negli Stati Uniti d’America avvenuto dal 15 al 21 aprile 2008, cfr. M. INTROVIGNE, L’ultimo viaggio di Tocqueville. L’«encliclica itinerante» di Papa Benedetto XVI sugli Stati Uniti d’America, in Cristianità, 2008, n. 347-348, 3-16.

[7] F. GENTILE, Intelligenza politica e ragion di Stato, II ed. Milano, 1984, 73 mette in luce l’assenza di un fondamento filosofico certo nella Dichiarazione Universale dei Diritti, citando l’introduzione di Jacques Maritain alle risposte vagliate da una Commissione di esperti al questionario inviato dall’UNESCO agli intellettuali più noti dei diversi paesi membri dell’organizzazione internazionale: “Si racconta che in una riunione della Commissione, qualcuno si meravigliasse che, nel formulare una lista di Diritti, si fossero trovati d’accordo campioni di ideologie violentemente avverse. Sì, risposero, noi siamo d’accordo su questi Diritti, ma a condizione che non ci si domandi il perché. Col perché comincerebbe la disputa”, in AA.VV., Autour de la nouvelle déclaration universelle des droits de l’homme, 1949 (tr. it., Milano, 1960).

[8] Cfr. M.A. PEETERS, La mondialisation de la révolution culturelle occidentale, 2007, Insitute for Intercultural Dialogue Dynamics asbl, passim, soprattutto 111-196, che descrive magistralmente questo processo e l’appoggio a esso fornito dagli organismi internazionali facenti capo all’ONU. Cfr. anche D. O’LEARY, Maschi o femmine? La guerra del genere, ed. it. a cura di D. Nerozzi, Soveria Mannelli, 2006, passim; A. VILLIÉ, Origines et conséquences de la négation de la différence sexuelle. Étude critique de la gender theory,  Morolo, 2007.

[9] Cfr. M. SCHOOYANS, L’Évangile face au désordre mondial, 1997, New York, passim, in particolare 51-123.

[10] Sul rapporto fra il rispetto della vita e il diritto cfr. fondamentali riflessioni in Francesco D’Agostino, Il rispetto della vita e il diritto, in Pontificia Academia Pro Vita, La cultura della vita: fondamenti e dimensioni. Atti della settima assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 1-4 marzo 2001), a cura di J. De Dios Vial Correa e E. Sgreccia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 207-213; Idem, La vita e il diritto: l’«Evangelium vitae» letta da un giurista, in Idem, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, 3a ed. ampliata, Giappichelli, Torino 1998, pp. 107-119; e Idem, Diritto e eutanasia, ibid.,  223-240.

[11] Cfr. la fondazione filosofica del tema costituito dalla «lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte», in Gonzalo Miranda L.C., «Cultura della morte»: analisi di un concetto e di un dramma, in Commento interdisciplinare alla «Evangelium Vitae», cit., 225-243, che ricostruisce anche filologicamente il crescente riferimento al tema nel magistero di Papa Giovanni Paolo II e nell’insegnamento della Chiesa. Lo scontro fra Vangelo della vita e cultura della morte è mirabilmente descritto da mons. Carlo Caffarra, Vangelo della vita e cultura della morte, Comitato per la Libertà di Educazione, Torino-Di Giovanni Editore, San Giuliano Milanese (Milano) 1992, 31-35.

[12] M. SANGER, Woman, Morality, and Birth Control, New York, 1922; EAD., An Autobiography, Elmsford, New York, 1970; su di essa cfr, A. FRANKS, Margaret Sanger’s Eugenic Legacy. The Control of Female Fertility, 2005.

[13] Programma ideato da Margaret Sanger e comparso sulla “Birth Control Review” del 1932, citato in G. BRAMBILLA, Il mito dell’uomo perfetto, le origini culturali della mentalità eugenetica, Morolo, 2009, 42: “…applicare una severa e rigida politica di sterilizzazione e segregazione verso coloro la cui progenie potrebbe nascere tarata o potrebbe essere tarata… salvaguardare il paese contro future spese di mantenimento di numerosi figli nati da genitori tarati, pensionando tutte le persone con patologie trasmissibili che volontariamente acconsentono alla sterilizzazione…dare la possibilità a certi gruppi disgenici della nostra popolazione di scegliere tra la segregazione e la sterilizzazione… creare delle fattorie dove segregare e far lavorare tutta la vita queste persone”.

[14] Sull’ideologia eugenistica e sui pregiudizi pseudo scientifici da essi indotti nella vita sociale del ‘900 cfr. per tutti D.J. KEVLES, In the Name of Eugenics. Genetics and the uses of human heredity, Harvad University  Press, 5° ed. 2004 [1985].

[15] M.A. PEETERS, La mondialisation, cit., 54.

[16] Questo diritto di scelta, peraltro, presenta un corrispettivo oscuro, che raramente viene sottolineato, al fine di occultare le implicazioni pregiudizievoli per la donna ricollegabili al cambiamento del paradigma etico, che Michel Schooyans (ID., L’Evangile face au désordre mondial, cit., 16, 76) ha chiaramente individuato, sulla falsariga di uno scritto di Max Weber, nel passaggio dall’etica della convinzione, basata sul giudizio in ordine a ciò che è bene e ciò che è male, all’etica della responsabilità, per cui si può fare quello che si vuole, ma ci si deve fare carico delle conseguenze prevedibili dei propri atti. Peter Singer (ID., Rethinking Life & Death, tr. it. Ripensare la vita, Il Saggiatore, 2000, 198), nel riscrivere i comandamenti, ha sostenuto che il secondo comandamento della nuova etica è: «assumiti la responsabilità delle conseguenze delle tue decisioni». E’ evidente che, nella logica del «diritto alla scelta», la donna può anche decidere di non abortire il figlio affetto dalla sindrome di Down; ella dovrà però essere consapevole della responsabilità di tale scelta, assumendo su di sé il peso delle conseguenze che essa implica, senza poter previamente contare su alcun sostegno da parte della collettività.

[17] Sull’ideologia di «genere» cfr. per tutti L. PALAZZANI, Identità di genere? Dalla differenza alla indifferenza sessuale nel diritto, Cinisello Balsamo (Mi), 2008, D. NEROZZI, L’ideologia di Genere, Relazione tenuta al Convegno “La Costituzione Repubblicana. Fondamenti, principi e valori, tra attualità e prospettive”, Vicariato di Roma – Ufficio Pastorale Universitaria, Roma, Università Lateranense, 13-15 novembre 2008; X. LACROIX, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, Milano, 2006. Sulla lotta per l’attuazione dell’agenda di genere da parte delle agenzie internazionali e dell’Unione Europea cfr. E. ROCCELLA – L. SCARAFFIA, Contro il Cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia, Casale Monferrato, 2005.

[18] INSTRAW (Institut International de Recherche et de Formation pour l’Avancement des Femmes), Gender Concepts in Development Planning. Basic Approach, 1995,11.

[19] M. SCHOOYANS, L’Évangile, cit., 40.

[20] F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, tr. it.,   [1884].

[21] SCHOOYANS, op. cit., 47.

[22] R. REICHE, Triebsschicksal der Gesellschaft. Über den Strukturwandel der Psyche, Frankfurt a M., 2004;, tr. it., Genere senza sesso. Società e mutamenti della psiche,  Roma, 2007, 131.

[23] Come disse Gesù, ribadendo le parole del Genesi, ad alcuni farisei gli si erano avvicinati per metterlo alla prova sulla liceità del ripudio della moglie, Gesù aveva risposto: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola” (Mt. 19, 4-5).

[24] M. FOUCAULT, Les Mots et les choses. Archéologie des sciences humaines, Paris, 1966; tr. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, 1978; ID., La volonté de savoir. Histoire de la sexualite, I, Paris, 1977, tr. it. La volontà di sapere, Milano, 1996; ID., Le souci de soi. Histoire de la Sexualité, III, Paris, 1984; tr. it. La cura di sé, Milano, 2001.

[25] J. BUTLER, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of Sex, New York, London, 1993; tr. it., Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, 1996, 106 ss.. Della medesima autrice v. anche EAD., Trouble dans le genre, Paris, 2005; EAD.,  Défaire le genre, Paris, 2006; per l’avvenuta dell’individuo nei generi cfr. K. BORNSTEIN, Gender outlaw. On men, women, and the rest of us, New York, 1994. Pionieri dell’ideologia del «genere» sarebbe stato R.J. STOLLER, Sex and gender, New York, 1968 e J. MONEY, Gender: history, theory and usage of the term in sexology and its relationship with nature/nurture, «Journal of Sexual and Marital Therapy», 11, 71-79. Fondamentale nella diffusione dell’ideologia del «genere» è stata S. FIRESTONE, The Dialectic of Sex, New York, 1970, tr. it., La dialettica dei sessi, Bologna, 1971.

[26] REICHE, Genere senza sesso, cit., 159.

[27] REICHE, ibidem, 197.

[28] Queste dottrine non rifiutavano il piacere e la soddisfazione carnale, ma dichiaravano malvagio il coniugio e la fecondità inerente al matrimonio. L’eretico Marcione (ca. 85 – seconda metà del II secolo) vietava la generazione, affinché il genere umano non concorresse con l’opera dal demiurgo maligno nel moltiplicare il genere umano. Altri eretici, come Basilide (fine sec. I – metà sec. II), al dire di Clemente Alessandrino (metà sec. II – c.a. 211) (Stromati, l. III, n. 3), predicavano un rigorismo ed ascetismo estremo, con l’astinenza dalle nozze, condannando il matrimonio come cosa immonda. Pur nella radicale opposizione, identico era l’obiettivo cui le varie dottrine miravano, condannare le nozze come intrinsecamente malvagie, ferendole nella loro fondamentale vocazione e nel loro presupposto morale, d’essere, cioè, aperte alla procreazione di nuove vite. La fecondità era negata ora in forza della massimizzazione del piacere carnale, ora in ragione del più cupo ascetismo; ciò che a tutti importava era che il sesso fosse comunque sterile e snaturato. Cfr. E. AVOGADRO della MOTTA, Teorica dell’istituzione del matrimonio, Parte II, Torino, 1854, 51-82.

[29] Servo di Dio PAOLO VI, Lett. enciclica Humane Vitae, data a Roma il 25.71968, in Enchiridion Vaticanum, 3. Documenti ufficiali della Santa Sede 1968-1970, 1977, Bologna, 293: “[…] richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita. Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana.”

[30] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione «Donum Vitae» su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (22 febbraio 1987), con Presentazione di S. Em. il Cardinale Joseph Ratzinger e Commenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990.

[31] Paolo, Ef. 5, 28-33: “Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito.”