Mercoledì prossimo la Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo valuterà se confermare o meno la sentenza che, lo scorso gennaio, aveva condannato l’Italia per non aver riconosciuto come legittimo un rapporto genitori-figlio nato da una “maternità surrogata” avvenuta all’estero. Il rischio, in caso di riconferma, è quello che si possa arrivare a legalizzare quella che appare sempre più come una compravendita di bambini. I dettagli nel servizio di Michele Raviart:
Nel febbraio del 2011 una coppia italiana residente nella provincia di Campobasso si era recata in Russia, dove, attraverso una società privata, aveva ottenuto un bambino, nato da una “madre surrogata” e che non aveva nessun legame biologico con i due. Secondo la legge russa la coppia ha potuto registrare il bambino come figlio proprio, un atto tuttavia non riconosciuto dal tribunale italiano, che ha disposto l’allontanamento del bambino dalla coppia e il suo affidamento in adozione ad un’altra famiglia. Il bambino aveva vissuto sei mesi con la coppia che lo aveva portato in Italia, circostanza che per la Corte di Strasburgo era sufficiente per la creazione di legami famigliari consolidati. Per questo, pur lasciando il bambino nella famiglia dove si trova ora, la Corte ha affermato che la magistratura italiana non aveva diritto di sottrarre il bambino alla prima coppia, perché non ha tenuto conto dell’”interesse superiore del bambino”. Don Renzo Pegoraro, cancelliere della Pontificia Accademia per la Vita:
R. – Le conseguenze sono molto preoccupanti, perché introducono interpretazioni del concetto e dell’esperienza di genitorialità, di famiglia e di rapporto genitori-figli molto strane e molto gravi nelle sue conseguenze. Per cui “il figlio” diventa sempre più un oggetto in base ai desideri e alle decisioni di una coppia, anziché riconoscere l’accoglienza di un figlio in quanto figlio oppure l’adozione secondo le regole esistenti.
D. – La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha affermato che la magistratura italiana aveva sì il diritto di togliere il bambino alla coppia che lo aveva ottenuto in Russia, ma che non ha seguito l’interesse superiore del bambino che ha passato con loro sei mesi. Basta questo tempo per legittimare l’unità familiare nata di fatto da una pratica commerciale?
R. – Direi di no! Intanto perché il tempo è molto breve, ma poi il fatto che alla base ci sia una pratica illegale o commerciale o quello che può diventare un vero e proprio traffico di bambini, è molto preoccupante. Per cui credo che sia stata legittima la decisione della Corte italiana di procedere con un affidamento o una adozione ad un’altra coppia, con la quale il bambino sembra aver instaurato un buon rapporto e che si siano creati dei legami più trasparenti, più corretti e più rispettosi, anziché forme di compravendita che non rispettano né le leggi nazionali né quelle internazionali.
D. – Come funzionano queste società private, come quelle che operano in questo caso in Russia? Anche dal punto di vista delle donne?
R. – L’elemento che preoccupa molto è questa forma di commercializzazione per cui con il denaro si può comprare una donna, trasformandola semplicemente in una incubatrice e comprarne poi il figlio. E’ quindi una agenzia che offre tutto un pacchetto di servizi rendendo una gravidanza e anche un bambino che nasce un qualcosa che si può acquistare, invece di qualcosa verso il quale avere responsabilità di tutti i tipi.
D. – Quanto è diffuso questo fenomeno a livello internazionale?
R. – Ci sono la Russia e qualche altro Paese dell’Est; l’altro grande Paese soggetto a questo è l’India, dal quale sono già venute segnalazioni di proteste da associazioni femminili e da associazioni legate ai diritti dell’uomo per evitare proprio questo abuso della donna, “comprata” per essere un utero in affitto, e questo approfittando delle donne più povere e più in difficoltà, oltretutto con contratti che poi sono tante volte forme di capestro e con possibilità poi di non accogliere il bambino oppure di obblighi per la madre e cosa consegue se la coppia poi rifiuti di prendere quel bambino perché ha magari una disabilità o perché la mamma non ha avuto dei comportamenti corretti durante la gravidanza col consumo di sostanze. Oppure nel caso siano gemelli e uno dei due fosse disabile, uno disabile va “soppresso” rispetto all’altro… Quindi altre forme di violenza di abuso che si ripercuotono sulla donna.
D. – Quali sono i rischi di mettere sullo stesso piano questa pratica di utero in affitto con quella dell’adozione?
R. – La differenza è notevole, in quanto adozione significa già l’esistenza di un bambino o di una bambina che ha bisogno di genitori, di una famiglia, di un contesto fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo. E quindi l’adozione fa incontrare il desiderio di una coppia col bisogno di un bambino. Quando si parla, invece, di utero in affitto vuol dire proiettare una pretesa di dominio e di potere sulla procreazione umana e di soddisfare i desideri di una coppia forzando qualsiasi regola di rispetto sia biologico che soprattutto sociale e legale.