Alle origini della bioetica —
Il temine bioetica è stato probabilmente utilizzato per la prima volta nel 1927 dal pastore protestante Fritz Jahr (1895-1953) nell’articolo “Bio-etica. Una panoramica delle relazioni etiche dell’uomo con animali e piante” , nel quale descrive un’etica rispettosa degli «obblighi morali non solo nei confronti di uomini, ma di tutti gli esseri viventi» . Come precursori della bioetica, l’Autore ricorda san Francesco d’Assisi e filosofi come Friedrich Schleiermacher e Arthur Schopenhauer, ma si ispira soprattutto a filosofie orientali e alla teoria della reincarnazione. Non si fa promotore solo di una protezione radicale degli animali ma anche della difesa delle piante, e ricorda come il filosofo Eduard von Hartmann alla vista di fiori recisi in un vaso non potesse evitare di pensare che erano stati “uccisi” da un uomo . Non sembra che nei suoi scritti successivi Jahr abbia utilizzato di nuovo il termine bioetica.
In anni più recenti il termine è stato utilizzato da Van Rensselaer Potter in un articolo del 1970 Bioetica, la scienza della sopravvivenza e l’anno successivo nel libro Bioetica, ponte per il futuro . Con bioetica Potter intendeva una nuova scienza che armonizzasse conoscenze biologiche e valori umani per rimediare a problemi posti dal degrado ambientale. Quasi parallelamente il termine bioetica è stato utilizzato pubblicamente nel significato attuale nell’ottobre 1971 in un comunicato stampa dell’Università Georgetown di Washington che annunciava la nascita, grazie alla Fondazione Kennedy, di un istituto che sarebbe stato «pioniere nello sviluppo di un nuovo campo di ricerca interdisciplinare che i fondatori dell’istituto hanno chiamato bioetica» , si è trattato di una tappa decisiva in un percorso iniziato negli anni precedenti.
Etica medica negli anni 50’ e 60’
Negli anni ‘50 e ’60 progressi della medicina hanno posto a medici, cattolici e non, problemi etici come le strategie nei reparti di cure intensive, la definizione del momento della morte per autorizzare i trapianti, il problema di pazienti sottoposti a dialisi che volevano interrompere il trattamento e altre condizioni, come la questione della sovrappopolazione.
La risposta più organica è stata data dal magistero della Chiesa cattolica che da secoli si era occupata in modo sistematico dei problemi etici in medicina, prima nell’ambito della teologia morale e, successivamente, con la medicina pastorale, e disponeva, quindi, della maggiore esperienza e di un apparato teorico molto elaborato. Pio XII (1939-1958) ha tenuto numerosi discorsi a medici e alle altre professioni sanitarie, prendendo posizione sui temi più differenti, rispondendo molto spesso a quesiti di natura etica che i medici stessi gli avevano posto in occasione di udienze. I discorsi ai medici di Pio XII costituiscono un corpus imponente e sono stati raccolti in un volume di oltre 700 pagine .
Anche negli Stati Uniti medici hanno sentito la necessità di affrontare le nuove sfide morali e hanno richiesto la collaborazione di esperti di etica. A partire dai primi anni ‘60 dai contatti interpersonali si sono formate reti di specialisti che hanno poi organizzato numerosi convegni per lo più con un approccio interdisciplinare, ecumenico, interreligioso e aperto anche a posizioni laiche. Si è trattato di un nuovo modello di collaborazione tra specialisti che fino ad allora si erano occupati per lo più unicamente delle proprie rispettive discipline, così teologi hanno dovuto familiarizzarsi con temi di medicina e biologia, e medici con temi di etica.
Un’importanza crescente hanno avuto il controllo delle nascite, anche in relazione al problema della sovrappopolazione, l’uso della pillola anticoncezionale e la questione dell’aborto.
In Vaticano si temeva che alcuni stati avrebbero potuto affrontare il tema della sovrappopolazione con l’imposizione di leggi sul controllo delle nascite, e nel 1963 Giovanni XXIII (1958-1963) ha costituito una “Commissione incaricata di studiare il ‘Birth Control’” . Nel corso degli anni lo scopo della commissione è cambiato, si è dovuta occupare delle differenti tesi sulla teologia del matrimonio discusse durante il Concilio Vaticano II (1962-1965) e della crescente diffusione dei farmaci contraccettivi ormonali – il primo preparato è stato messo in commercio negli Stati Uniti nell’agosto del 1960, e in Europa nel 1961–, per affrontare questi temi la commissione è stata considerevolmente ampliata con esperti di varie discipline anche scientifiche. Sono stati elaborati alcuni rapporti, a volte espressione tanto della maggioranza quanto della minoranza della commissione, che sono stati presentati al beato Paolo VI (1963-1978) che, nel 1968, ha pubblicato l’enciclica Humanae vitae nella quale ha ribadito la dottrina tradizionale della Chiesa, «fondata sulla legge naturale illuminata e arricchita dalla rivelazione divina» e ha preso le distanze dalle proposte di una parte degli esperti:
«Le conclusioni alle quali era pervenuta la commissione non potevano tuttavia essere da noi considerate come certe e definitive, né dispensarci da un personale esame di tanto grave questione; anche perché non si era giunti, in seno alla commissione, alla piena concordanza di giudizi circa le norme morali da proporre, e soprattutto perché erano emersi alcuni criteri di soluzioni, che si distaccavano dalla dottrina morale sul matrimonio proposta con costante fermezza dal magistero della chiesa. Perciò, avendo attentissimamente vagliato la documentazione a noi offerta, dopo mature riflessioni e assidue preghiere, intendiamo ora, in virtù del mandato da Cristo a noi affidato, dare la nostra risposta a queste gravi questioni» .
Effettivamente un certo numero di teologi e di alti prelati voleva riformulare la teologia del matrimonio in modo autonomo dal magistero. Questo si è verificato negli Stati Uniti in iniziative ecumeniche. «Diversi cattolici consideravano irrilevante per la loro vita la condanna della Chiesa di ogni pianificazione riproduttiva a esclusione dell’astinenza totale o periodica. Diversi teologi cattolici hanno anticipato qualche cedimento della dottrina. Quando papa Paolo VI ha riaffermato l’insegnamento tradizionale nell’enciclica Humanae vitae, diversi cattolici hanno sofferto una crisi di coscienza e teologi morali si sono schierati come conservatori ortodossi o “eretici” liberali.”»
Ancor prima della pubblicazione della Humanae vitae, nel 1967 si è tenuta un’importante iniziativa: la facoltà di teologia dell’Università di Harvard, la Harvard Divinity School, e la Fondazione Joseph P. Kennedy Jr. hanno sponsorizzato il Primo congresso internazionale sull’aborto . La linea di questo congresso è significativa perché anticipa sviluppi successivi della bioetica. Sotto forma di dialogo tra le persone coinvolte sono stati presentati alcuni casi fittizi per descrivere gravidanze in situazioni difficili. Attrici e attori hanno rappresentato una ragazza violentata da uno sconosciuto, una minorenne che attendeva un figlio da un compagno di scuola, una madre di famiglia con difficoltà economiche, una donna di colore con una gravidanza non desiderata e altri soggetti coinvolti, come medici, giudici, insegnanti e genitori, che hanno argomentato a favore o contro l’aborto. Prevalevano, però, i pareri a favore con argomenti differenti come la convinzione che una parte della popolazione sarebbe stata a favore dell’aborto, le disuguaglianze dovute alle differenti legislazioni nei vari stati dell’Unione o la maggiore facilità per donne bianche benestanti di accedere a un aborto legale rispetto a quelle meno abbienti e di colore. Dopo aver riportato nella prima parte del volume i singoli casi e le successive discussioni interdisciplinari, nella seconda sono sistematizzati gli interventi con l’esposizione di pareri a favore e contro l’aborto da differenti prospettive: biologica, statistica, sociale, medica, etica e giuridica, ma, alla fine, tutti gli argomenti sono stati considerati solamente come opinioni discutibili sul valore da attribuire alla vita umana nelle sue differenti fasi di sviluppo , senza la possibilità di raggiungere un consenso condivisibile razionalmente. Questa conclusione mette in dubbio la possibilità di giustificare razionalmente il divieto dell’aborto, e attribuisce piuttosto alle persone interessate, quindi alle donne, la responsabilità della decisione finale a favore o contro la vita.
Nel gruppo degli esperti di etica si sono scontrate diverse posizioni, un docente di diritto dell’Università della California a Berkeley, John T. Noonan, ha difeso il diritto alla vita in tutte le sue fasi, mentre teologi si sono mostrati più possibilisti, e teologi cattolici si sono distanziati dal Magistero. Il padre Robert O. Johann SJ, professore di filosofia all’Università Fordham di New York ha sostenuto: «La questione che io pongo molto seriamente per il moralista cattolico è che prendiamo in considerazione … o per lo meno cerchiamo di comprendere ciò che sta dietro alla percezione di così tanta gente … che quando si tratta di un feto questo è sentito e percepito come un essere in qualche modo differente da un bambino» . Anche altri teologi non hanno considerato la vita fetale come propriamente umana, il padre Richard A. McCormick S.J., poi, ha sostenuto che nelle prime fasi dello sviluppo il feto non ha la stessa dignità di un essere umano rifacendosi a «una ‘teoria sostenibile e rispettabile’ preferita da un ‘notevole numero di filosofi e teologi [cattolici]`che ritengono che l’anima non è infusa al momento del concepimento ma solo più tardi, forse quando il corpo ha sviluppato in modo riconoscibile caratteristiche umane» .
Uno dei promotori del congresso sull’aborto è stato il ginecologo di origine olandese André Hellegers (1926-1979), «già vice-presidente della commissione pontificia per la regolazione delle nascite (1964-1966) e direttore del comitato medico della stessa commissione» . È degno di nota che Hellegers, che ancora nel 1966 era direttore del comitato medico della commissione pontificia per la regolazione delle nascite, già l’anno successivo è stato tra i i promotori del congresso sull’aborto.
Questo gruppo di teologi, medici e specialisti di varie discipline hanno proseguito la loro collaborazione con il sostegno di importanti fondazioni. Nel 1969 è stato fondato l’Institute of Society, Ethics and the Life Sciences a Hastings-on-Hudson, nello Stato di New York – noto anche come Hastings Center –, sponsorizzato dalla Fondazione Rockfeller.
La bioetica diventa disciplina universitaria
Hellegers ha continuato a elaborare un’etica indipendente dalla teologia sviluppando contatti interdisciplinari. Con l’aiuto del presidente dell’Università Georgetown di Washington, il padre Robert J. Henle S.J. (1909-2001), fonda nel 1971 il Joseph and Rose Kennedy Center for the Study of Human Reproduction and Bioethics , diventato successivamente il Kennedy Institute of Ethics, che, come centro qualificato di formazione inserito nell’università, ha avuto un ruolo determinante per la diffusione della bioetica come nuova forma di etica medica. L’università Georgetown è un’istituzione cattolica, ma già nella conferenza stampa di presentazione del nuovo centro, ai giornalisti che chiedevano come fosse possibile conciliare la morale cattolica con l’intenzione di una ricerca a tutto campo, il padre Henle ha precisato che si trattava di una «iniziativa autenticamente ecumenica e cattolica», intendendo cattolica nel senso di universale .
Allo sviluppo della bioetica hanno contribuito numerosi teologi cattolici di area progressista che avevano già preso le distanze dal Magistero della Chiesa nelle questioni morali, privilegiando un approccio unicamente laico. «Lo studio delle origini della bioetica mostra il ruolo centrale delle istituzioni cattoliche. […] Hellegers e Francesc Abel [padre gesuita spagnolo,1933-2011], suo allievo e collaboratore, si sono collocati nell’ala progressista di questa tradizione e con le loro scelte hanno dato vita alla bioetica e l’hanno influenzata tanto in America quanto in Europa» .
In altri termini all’interno della teologia morale cattolica si è creata una spaccatura tra «conservatori ortodossi ed ‘eretici liberali’» , cioè tra teologi morali che continuavano a ispirarsi al Magistero e quelli che, invece, intendevano elaborare un’etica medica indipendente dall’insegnamento della Chiesa cattolica, e proprio questi ultimi hanno dato il loro contributo decisivo alla nascita della bioetica.
I primi passi della bioetica
In un primo tempo teologi cattolici hanno portato il loro contributo alla formazione della bioetica ancora con un approccio in parte tradizionale, pensando che, come aveva sostenuto il padre Henle, prescindendo dal Magistero sarebbe stato possibile trovare un punto comune con altri eticisti e che non ci sarebbero state differenze sostanziali tra un’etica cattolica, ecumenica o universale. Questo è stato possibile fino a un certo punto con alcuni teologi protestanti sulla base del richiamo comune alla Sacra Scrittura e in parte anche al diritto naturale. In questa fase la bioetica ha ottenuto dei risultati positivi, bloccando, per esempio, il finanziamento pubblico negli Stati Uniti di ricerche che utilizzavano feti umani .
La nuova bioetica ha avuto anche il merito indiscutibile di coinvolgere rappresentanti di altre confessioni religiose e di ambienti laici nella discussione etica, ciò che era riuscito solo in modo limitato alla medicina pastorale. La bioetica è diventata una disciplina universitaria, è stata inserita nella formazione dei medici e negli ospedali sono stati costituiti con il tempo anche comitati di bioetica.
Il progressivo coinvolgimento di eticisti non cristiani ha costretto bioeticisti cattolici, ortodossi e protestanti a cercare un consenso al ribasso, come riconosce uno dei maggiori esponenti della bioetica cristiana, il professore Tristram Engelhardt jr, cresciuto cattolico ma convertito alla Chiesa ortodossa: «La bioetica cristiana è servita come un passaggio intermedio per la nascita di una bioetica laica» . Engelhardt parla anche della «[…] comparsa della bioetica cristiana e della sua eclissi nel predominio a livello mondiale di una bioetica filosofica e secolare» , e «Dopo una breve fioritura, la bioetica cristiana è diventata simile alle sue versioni secolarizzate» . Secondo Engelhardt una bioetica cristiana che non cerchi l’omologazione con la bioetica laica mostrerebbe un carattere settario e offenderebbe lo spirito ecumenico .
Edmund D. Pellegrino (1920-2013), considerato uno dei più umanisti tra i bioeticisti, sostiene la necessità di un nuovo approccio dell’etica medica che dovrebbe confrontarsi con situazioni concrete, con le trasformazioni socio-politiche e con l’indebolimento del consenso religioso e filosofico che sosteneva l’etica professionale. Queste nuove situazioni hanno messo in dubbio la validità dei fondamenti tanto dell’etica classica com’era stata formulata fin dalla Grecia antica , che «[…] dipendeva da una antropologia basata sulla legge naturale» , quanto delle virtù corrispondenti: «Negli ultimi 15 anni – Pellegrino scriveva nel 1988 – sono avvenuti più cambiamenti che in tutta la precedente storia della medicina e delle professioni mediche. L’antico edificio dell’etica ippocratica è stato demolito e noi stiamo entrando in qualcosa che senza esagerazione può essere definito un’era ‘post-ippocratica’» .
Di tutta la tradizione antica sarebbe ancora valido un precetto del giuramento di Ippocrate: «Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa” perché corrisponderebbe a due dei principi comunemente accettati dalla bioetica: quelli della “beneficenza” e della non “maleficenza”, il medico, cioè, dovrebbe fare il bene del paziente ed evitare di nuocergli.
Pur mettendo in relazione il precetto del giuramento di Ippocrate con il principio di beneficenza, Pellegrino interpreta in modo particolare il “bene” che dovrebbe essere perseguito dal medico. La concezione del “bene” non potrebbe, infatti, fondarsi su teorie filosofiche, etiche o religiose del passato, e Pellegrino ritiene che le nuove sfide etiche della medicina «non richiedono però un deciso ritorno a forme classiche dei fondamenti dei valori etici, sia che si fondino sul diritto naturale, su teorie kantiane, sull’utilitarismo, sulla dialettica o su una fede basta su una rivelazione. Un tale disperato tentativo di trovare fondamenti ultimi per il comportamento morale e culturale sarebbe reazionario e negatore dell’emancipazione e della libertà» , perché non prenderebbe sul serio l’autonomia, il diritto all’autodeterminazione del cittadino e la sua capacità di assumersi responsabilità.
Pellegrino distingue tre possibili modi di intendere ciò che è buono per il paziente: sulla base di un ordine morale assoluto che stabilisce ciò che è bene e ciò che è male; una concezione teorica basata su teorie mediche; ciò che il paziente stesso considera come il proprio bene.
«Personalmente mi sono limitato al bene del paziente come è percepito dal paziente e ho evitato le questioni più profonde del bene del paziente dal punto di vista metafisico» .
Per quanto riguarda il medico e gli altri professionisti della sanità, Pellegrino ritiene necessario un cambiamento di approccio: vi sarebbe una differenza sostanziale tra la concezione del bene del paziente basata su principi medici e ciò che il paziente considera come suo bene. Per questo le finalità mediche del trattamento non corrisponderebbero necessariamente alle aspettative del paziente. Non sarebbe possibile partire da principi generali o da una visione puramente medica della malattia, anche per l’incertezza delle diagnosi, ma si dovrebbe prendere in considerazione il singolo caso e la sofferenza individuale, e proprio la condizione di sofferenza, che solo il paziente sarebbe in grado di valutare, e il suo alleviamento dovrebbero essere al centro del trattamento. In contrapposizione con le vecchie concezioni mediche bollate come paternalistiche, perché attribuirebbero al medico la decisione su ciò che è bene per il paziente, «Dal punto di vista ‘moderno’ noi non possiamo sapere che cosa è buono per il paziente senza conoscere i suoi desideri. La scelta del paziente è un bene semplicemente perché lui lo desidera. Per fare il bene del paziente noi dobbiamo fare il bene che lui desidera» .
Per secoli il medico ha orientato la sua attività al principio che «la salute del malato dev’essere la legge suprema», oggi invece il primato spetta alla volontà del malato. Si tratta di un principio legittimo se sancisce che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento medico, a parte casi particolari nei quali è in gioco la sicurezza o la vita di altre persone, ma che diventa problematico se attribuisce al paziente, eventualmente condizionato da convenzioni o da mode, il diritto di pretendere qualsivoglia intervento medico.
Non è più il medico che, secondo scienza e coscienza, pone l’indicazione per un intervento terapeutico, ma sono le richieste dei pazienti o dei loro familiari, o in certi casi convenzioni sociali, che legittimano un intervento medico .
Pellegrino, come del resto altri bioeticisti, accetta l’ampliamento del concetto tradizionale di malattia e di terapia, prendendo in considerazione anche condizioni che provocano in qualche modo disturbi o disagio al paziente, e che hanno bisogno non di una terapia vera e propria ma di un “aiuto”: «Persone diventano pazienti quando riconoscono di essere sufficientemente affette da sintomi fisici o psichici da credere di aver bisogno di aiuto» .
Se l’etica generale non può più stabilire in modo assoluto ciò che è bene o male, l’etica professionale rischia di ridursi ad assecondamento della volontà del paziente, cioè a mettere le proprie capacità tecniche al servizio, per usare il termine usato da Pellegrino, dei “desideri” del paziente. In questo modo si decreta, però, la fine della bioetica: «In breve, noi dobbiamo procedere dall’etica medica o bioetica a una filosofia morale della medicina e delle professioni mediche più globale» . Una filosofia “morale” della medicina che non accetta interferenze esterne, ma parte unicamente dall’esperienza soggettiva del paziente e legittima interventi terapeutici che ne soddisfano i desideri.
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