COPENAGHEN. «Come medico cattolico vedo in questo sviluppo una minaccia per l’umanità stessa e la negazione di una parte essenziale della vita»: John-Erik Stig Hansen, direttore del Centro nazionale di bio-sicurezza, commenta così al Sir la notizia, rimbalzata in questi giorni sui media della Danimarca, secondo la quale fra trent’anni non ci saranno più nel Paese persone affette da sindrome di Down. Non ci saranno più — rivela il Cytogenisk Centralregister della clinica universitaria di Aarhus — perché il 98 per cento delle donne incinte, alle quali viene diagnosticato che il nascituro è affetto dalla sindrome, oggi abortisce.
Stig Hansen, presidente del consiglio parrocchiale di una chiesa cattolica a Lyngby, vede un «legame molto problematico tra le questioni di diagnosi prenatale e il movimento proeutanasia». Circa il 70 per cento della popolazione, secondo i sondaggi, è a favore dell’eutanasia: «Se la vita diventa difficile e richiede aiuto, assistenza, sostegno, compassione, è esclusa, non è più considerata una vita buona», osserva il medico.
Thomas Hamann, presidente della Landsforeningen Downs Syndrom (Associazione nazionale per la sindrome di Down), sostiene che «è opinione condivisa ormai da anni in Danimarca che, se c’è una diagnosi di conferma, si abortisce. Nessuno pone domande». Nel 2014 sono nati due bambini Down per scelta, trentadue per “errore diagnostico”. Le autorità statali in campo sanitario non fanno nulla per impedirlo, giustificandosi con «la libera scelta della donna». Dal 2004, infatti, l’autorità sanitaria danese dà la possibilità gratuita alle mamme di effettuare un esame screening prenatale non invasivo (Nipt) alla nona settimana di gravidanza, la translucenza nucale alla dodicesima, eventualmente l’amniocentesi entro la ventesima, garantendo così al 99,3 per cento la certezza della diagnosi.
«In realtà — sottolinea Hamann — c’è bisogno di tanto coraggio per scegliere di accogliere il bambino» in un contesto sociale, come quello danese, che «non lascia spazio a questa possibilità». La famiglia viene lasciata sola. Il Comitato etico nazionale aveva messo «in guardia contro le strumentalizzazioni economiche di questa procedura — aggiunge il presidente dell’Associazione nazionale per la sindrome di Down — ma gli interessi ci sono e sono enormi», ammontano a milioni di euro risparmiati dai costi sanitari e sociali necessari per affiancare le persone Down nel corso della vita. Così, l’associazione cerca di «far conoscere che cosa è la sindrome, che non è la fine del mondo avere un figlio Down e che ci sono molte possibilità per stimolare adeguatamente il bambino in modo che si sviluppi armoniosamente». A partire dall’affetto della mamma e del papà, ovviamente.
Thomas Hamann tuttavia parla con amarezza: «La selezione della specie non è una questione del futuro». Il presente in Danimarca rischia di essere «il futuro del mondo». Non solo: «L’aborto potrebbe diventare la risposta a ogni esame che lasci intravedere la possibilità di patologie nel futuro del feto. Ed è sconvolgente».
Secondo Ellen Højlund Wibe, dell’Associazione diritto alla vita (Retten til Liv), «davanti al fatto, profondamente vergognoso, che stiamo eradicando un particolare gruppo di persone in Danimarca, incontriamo reazioni da molti Paesi occidentali e da diversi gruppi, non solo di cristiani impegnati; mentre in Danimarca non ci sono più garanti del valore della vita umana. I pochi che scelgono, spesso per motivi religiosi, di tenere un bambino con sindrome di Down — aggiunge Højlund Wibe — incontrano scarsissima comprensione rispetto a quella decisione. Il loro timore è che gli aiuti economici in futuro possano essere ridotti, perché gli si dirà che avrebbero potuto abortire. La loro paura non è infondata». Ma la responsabile osserva con fiducia che «dalla profondità dell’istinto umano nascono alcune reazioni e sta lentamente crescendo la consapevolezza, anche in ambiti laici, che ci siamo spinti troppo oltre con la nostra eugenetica in Danimarca».
Per Stig Hansen, «le nostre Chiese sono piuttosto passive. La maggioranza dei danesi appartiene alla comunità luterana di Stato ed è quindi parte del sistema, senza obiezioni verso l’aborto, nemmeno quello selettivo». Solo comunità minoritarie come quella cattolica e alcune chiese evangeliche «protestano, ma in un modo molto poco visibile». Da qui l’appello-messaggio all’Europa: «La Danimarca è un laboratorio, un esempio a cui guardare per capire che cosa succede se si tolgono la religione e il cristianesimo dalla società».
L’Osservatore Romano, 24 ottobre 2015.