Noi Famiglia&Vita – Lʼanalisi. Anche dire no allʼaborto deve rientrare tra le politiche familiari di Gian Luigi Gigli
Pubblicato il ottobre 31, 2017
Se, per dirla con De Gasperi, lo statista è colui che pensa alle future generazioni, l’Italia allora, piena di politici che pensano solo alle prossime elezioni, ne ha tremendamente bisogno. Nessun campo come i cambiamenti demografici ha bisogno di statisti. Si tratta di tendenze che si realizzano nel lungo periodo e per le quali gli effetti degli interventi correttivi si vedranno solo a distanza di decenni, ben oltre le scadenze elettorali.
Nessuno tuttavia sembra aver capito fino in fondo la gravità della situazione demografica dell’Italia, che avanza verso la desertificazione del Mezzogiorno e per la quale la denatalità in atto è destinata inevitabilmente ad autoaggravarsi per il progressivo calo delle donne in età feconda.
Delle conseguenze per la tenuta economica, sanitaria e previdenziale del Paese abbiamo parlato a più riprese. Anche i rischi di tenuta della pace sociale sono sempre più evidenti: per la contrazione delle risorse per il welfare, per la riduzione della solidarietà intergenerazionale, per le tensioni dovute a fenomeni migratori troppo rapidi per consentire una reale integrazione con una popolazione autoctona in calo.
Su queste diagnosi, a furia di insistere, si registra un consenso ormai generale. Lo stesso Governo ne ha preso atto, come è risultato evidente nella III Conferenza nazionale sulla famiglia. Anche sulle terapie da adottare il consenso è ampio ed è divenuta generalizzata la consapevolezza che il tema non può essere affrontato con interventi a spot o con bonus temporanei, ma solo con politiche di lungo respiro e con un sistema integrato di garanzie certe per chi deve mettere su famiglia e decidere di far figli. Tuttavia, nonostante le intenzioni degli ideatori della Conferenza e gli sforzi di quanti hanno duramente lavorato per realizzarla, il risultato non può che essere giudicato deludente. Anche nella prossima legge di bilancio, le politiche familiari non saranno la priorità dell’azione di governo.
Vedremo qualche stanziamento per le famiglie più povere, ma si tratterà di interventi di tipo assistenziale, inadatti ad incidere sul fenomeno della denatalità.
La Conferenza ha tuttavia consentito di puntare i riflettori sulla famiglia ed ha il pregio di aver tolto ogni alibi a chi non intende far nulla. Se dunque sono solo ideologiche le polemiche di chi ne ha criticato la convocazione in periodo preelettorale, essa rischia di trasformarsi in boomerang per chi pensava di utilizzarla come passerella pre-elettorale, senza assumersi impegni.
Per quanto graduali, sono ormai improrogabili misure concrete almeno verso le famiglie numerose. Invece di attendere di assisterle quando sono divenute povere, sarebbe meglio prevenirne lo scivolamento sotto la soglia di povertà, per il quale la nascita del terzo figlio costituisce il fattore di maggior rischio.
Nel corso della Conferenza ho richiamato con forza che all’appello per la natalità mancano almeno sei milioni di bambini.
Sono quelli persi dal 1978 per i soli aborti legali. Anche in questo caso, non sarebbe stato meglio prevenire? Si stima, infatti, che un buon terzo delle Ivg sia per cause socioeconomiche e l’esperienza dei nostri Centri di aiuto alla vita lo conferma. Si tratta di aborti che spesso, insieme al bambino, uccidono anche la madre, distrutta dai sensi di colpa per una scelta non voluta. Ed è ancora l’esperienza dei Cav a dimostrare che bastano spesso l’ascolto, la condivisione delle paure e delle ansie, la mano tesa di una compagnia reale, la disponibilità di un Progetto Gemma – malgrado sia poco più di una carezza – a far sì che la scelta sia per la vita.
Se ciò è possibile per le volontarie del MpV, perché non lo sarebbe per le strutture pubbliche?
Se il volontariato riesce a raccogliere 2-3 milioni di euro per i Progetti Gemma e a salvare 9mila bambini ogni anno, cosa riuscirebbe a fare lo Stato se mettesse a disposizione 200-300 milioni ogni anno per aiutare le donne in difficoltà e se i consultori davvero si facessero carico di verificare, insieme alla donna che chiede il certificato per l’Ivg se esistano alternative all’aborto.
Se a frenare le politiche per la famiglia vi è soprattutto la scarsità dei fondi, nell’impedire ogni aiuto alle gestanti pesa più l’ideologia. Con rare eccezioni (vedi in questo numero l’esperienza di Treviso), non si consente ai Cav di aprire un punto di ascolto negli ospedali, mentre i medici obiettori, motivati a proporre alternative all’aborto, sono stati pressoché espulsi dai consultori.
È ora che i governanti comprendano che le politiche familiari basate solo su leva fiscale, offerta di servizi o provvidenze economiche, per quanto urgenti e imprescindibili, non bastano a sconfiggere la denatalità. Occorre apprezzamento per la famiglia, cessando di svilirla nelle leggi anche dal punto di vista valoriale, comprendendo che equiparare a essa ogni forma di legame affettivo equivale a minare alle fondamenta la natalità.
Occorre soprattutto ripetere che la vita è un dono prezioso e che l’aborto può essere al massimo una decisione dolorosa che la Stato sceglie di non sanzionare, ma non certo un diritto. Occorre, infine, offrire a ogni donna soluzioni alternative all’aborto, per renderla davvero libera di scegliere. Il resto è costrizione e violenza. Promuovere la vita del bambino e insieme la libertà per la madre di dire sì alla vita che porta in grembo: è il nostro modo di raccogliere l’invito di papa Francesco a essere «creativi e propositivi, umili e coraggiosi». Il sostegno alla famiglia e l’inversione di rotta sulla denatalità passano inevitabilmente da qui.
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