FILIPPO MARIA BOSCIA – La legislazione riguardante la sicurezza sui luoghi di lavoro non deve e non può riferirsi solo alle politiche di prevenzione degli infortuni, ma deve essere applicata nella totalità delle ipotesi, perché riguarda molti ambiti ancora negati, e, tra questi, ne citiamo uno per tutti, quello della maternità negata alle donne in età riproduttiva che lavorano.
Tutti sanno, datori di lavoro inclusi, che, con il passare degli anni, la capacità di una donna di concepire un figlio diminuisce e la ragione sta nel progressivo calo della riserva ovarica, ossia nella diminuzione del numero potenziale di gameti, gli ovociti o cellule uovo, che ogni donna ha a corredo dalla nascita.
Da molti studi emerge che del patrimonio neonatale di 500.000 ovociti solo circa 500 arriveranno a piena maturazione nell’arco della vita riproduttiva, più o meno uno al mese per quarant’anni, dal menarca alla menopausa. Nel frattempo però questo tesoretto che va sotto il nome di riserva ovarica subisce un naturale decalage costante e progressivo, ancor più elevato di quanto non si pensasse in passato, che arriva al 90° intorno al 35° anno di vita, cioè molto prima del termine dell’età fertile.
Sofisticati programmi informatici che hanno studiato l’algoritmo di detto decremento hanno evidenziato che la fecondità femminile è massima intorno al 25° anno, mentre la perdita della funzione è condizionata dagli stili di vita, dal fumo, dall’alcol, dal lavoro, dallo stress e dai sempre più numerosi inquinanti ambientali, in primo luogo pesticidi e diossina, responsabili della condizione etichettata come stress ossidativo della funzione ovarica.
Da questi desolanti dati di fatto prende spunto la nostra riflessione sulle conseguenze negative che interessano la fertilità femminile dipendenti da cause di servizio**, seppure in senso lato, e al tempo stesso su quanto siano effettive le pari opportunità e all’opposto persistenti le diseguaglianze che affliggono in particolare le donne giovani.
La vicenda della pallavolista licenziata perché rimasta incinta è solo l’ultimo caso, almeno quelli che si conoscono, in cui la maternità viene pesantemente mortificata, ancor di più per il fatto che la sfortunata atleta è stata accusata di non aver mai comunicato l’intenzione di voler fare figli e di conseguenza chiamata a risarcire il danno subito dalla società sportiva.
In fondo nulla di nuovo, se si pensa a quanti contratti capestro di questo tipo vengono proposti alle donne giovani in cerca di lavoro mentre, anche in assenza di clausole vessatorie, è nozione comune che molte e molte lavoratrici, soprattutto del settore privato, vengono sbattute fuori appena il datore di lavoro apprende la notizia. E per evitare il licenziamento non di rado molte di esse sono costrette a decisioni estreme, come la soppressione del concepito attraverso l’interruzione volontaria della gravidanza. L’ennesima sberla alla mai raggiunta parità dei diritti tra uomo e donna.
Questa amara realtà è la più plateale mancanza di risposta alla tanto strombazzata ma non adeguatamente contrastata denatalità, che in Italia ha raggiunto livelli mai visti da decenni. Complice la pandemia da coronavirus, con tutti i suoi aspetti negativi rispetto al futuro, lo scorso è stato raggiunto il limite negativo di 400 mila nuovi nati, cifra più bassa dall’Unità nazionale ed anche un record negativo del saldo rispetto ai morti, a causa dei tanti decessi.
Una situazione che incrementa il già diffuso orientamento a spostare sempre più in avanti il concepimento, con tutti i rischi connessi al naturale decadimento del patrimonio ovarico che fanno solo un miraggio la possibilità di avere un figlio per via spontanea. Indispensabile pertanto il ricorso alla procreazione assistita, con tutti i problemi che essa comporta, legati alla procedura e non solo, se si considerano pure le incognite genetiche, legate all’età e alle interferenze ambientali.
Una maternità negata quella della donna lavoratrice che a ben vedere si può configurare come una malattia per cause di servizio. E allora se la legge tutela la sicurezza sui luoghi di lavoro e prevede in caso di infortunio il ricorso alle cure e se è il caso alle protesi, perché non stabilire altrettanto per patologie della fertilità da lavoro, non solo per cause tossico-infettive, ma anche per ritardo del concepimento, quindi l’accesso facile e gratuito alle cure riproduttive? Un calo della riserva ovarica non è assimilabile ad una qualsiasi mutilazione? E’ la mutilazione di una funzione, la più importante per ogni donna: la possibilità di diventare madre. Talmente grave da provocare effetti negativi sull’immagine del sé corporeo della donna e sulla stessa fecondità. E le varie tecniche di procreazione assistita cui è costretta a ricorrere possono essere considerate delle protesi funzionali finalizzate al recupero della mutilazione subita. Una mutilazione che a nostro parere richiede urgenti misure di prevenzione del danno e conseguenti provvedimenti legislativi adeguati.
Troppo spesso, volutamente, si è cercato di banalizzare e quindi oscurare questo problema, giudicandolo come effetto estremo dell’autodeterminazione femminile. Indubbiamente ogni individuo che ha capacità di intendere e di volere può prendere le decisioni che più gli aggradano e certamente nessuno vuole incrinare il diritto all’autodeterminazione. E’ però altrettanto giusto, proprio a garanzia delle conquiste raggiunte dalle donne, che ogni progetto occupazionale sia strutturale e disegnato a opportunamente, in Italia come in Europa, affinché tutte le donne, nell’età giusta possano facilmente coniugare lavoro e carriera con fertilità e maternità. Ad esempio, in riferimento al lavoro notturno, quali i tagli che devono essere disposti per le donne? Quali i provvedimenti per garantire un lavoro agile (smartworking)? Quali le attenzioni da avere per le donne in età fertile? Quali possibilità di calcolare il calo effettivo della riserva ovarica durante le stagioni della loro vita? E così via. Perché si arrivi ad un’autodeterminazione davvero consapevole è necessario che alla donna vengano forniti tutti gli strumenti conoscitivi possibili per prendere le decisioni più opportune per ciascuna.
Non siamo per un mammismo becero, ma come non vogliamo donne troppo mamme, così le auspichiamo né troppo stressate, né troppo sfruttate, private financo di un dono naturale così importante qual è la salute riproduttiva.
* (I due disegni su carta dal titolo ‘Maternità’ sono opera della pittrice FRANCESCA FORLEO BRAYDA – nata a Francavilla Fontana il 18 gennaio 1779 e morta a Brindisi il 2 giugno 1820 – fertile e creativa artista cui Nicola Argentina ha dedicato una meticolosa ed esauriente monografia pubblicata a Lanciano nel 1885)
** (Per causa di servizio si intende il riconoscimento della dipendenza dal lavoro di una infermità o di lesioni fisiche contratte a causa del servizio prestato, previsto per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche).