In un libro di Ermanno Pavesi una difesa della visione personalista dell’uomo
Papa san Giovanni Paolo II ha detto in varie occasioni che la modernità è segnata dalla secolarizzazione, la quale è un processo volto a estromettere Dio da ogni ambito della vita umana. Questa «morte di Dio» però non è senza prezzo, perché essa porta necessariamente con sé la morte dell’uomo, come lo spegnimento del sole non rende più brillante la luna.
La crisi dell’uomo occidentale e cristiano richiede di essere curata, e ogni terapia necessita di una diagnosi. Fedele a tale procedimento medico — invero valido per qualsiasi disciplina — è lo psichiatra piacentino naturalizzato svizzero Ermanno Pavesi, che ha di recente pubblicato lo studio dal titolo Poco meno di un angelo. L’uomo, soltanto una particella della natura? (prefazione di Mauro Ronco, D’Ettoris Editori, Crotone 2016, pp. 312, € 20,90). Pavesi ha svolto attività professionale e scientifica nelle cliniche psichiatriche delle Università di Basilea e di Zurigo; è stato docente in Antropologia psicologica e in Psicologia della Religione alla Gustav-Siewerth-Akademie di Weilheim-Bierbronnen, nonché in Psicologia alla Theologische Hochschule Chur presso la Facoltà di Teologia della Diocesi di Coira; dal 1988 al 2008 è stato Segretario dell’Associazione dei Medici Cattolici Svizzeri e dal 1992 al 1996 Segretario della Federazione Europea delle Associazioni dei Medici Cattolici; dal 2010 è Segretario generale della Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici. È socio fondatore di Alleanza Cattolica.
Lo studio in predicato è suddiviso in 23 capitoli, e ripercorre l’idea di uomo in Occidente a partire dall’antica Grecia fino alle moderne neuroscienze. Il suo filo conduttore si può riassumere così: seppur diversamente declinate, nel pensiero occidentale si fronteggiano due idee di uomo. La prima si concentra in modo esclusivo sugli aspetti che in esso assomigliano maggiormente a quelli del mondo inanimato e dei regni vegetale e animale: fisica, chimica, processi biologici, e così via. Esito di tale riduzione è considerare l’uomo come una semplice componente di un tutto di cui fa parte come un ingranaggio di un meccanismo: da qui derivano per esempio il concetto di «uomo macchina» e quello della mente assimilata a un computer, ma anche quello non meno razionalista ma certamente più «caldo» dell’influsso determinante delle stelle sul comportamento umano, e l’idea luterana di «uomo cavalcatura del diavolo». Tale riduzionismo ha come conseguenza la negazione della libertà, e ancora più generalmente la negazione della unicità dell’uomo rispetto agli altri esseri e di ciascun uomo rispetto a tutti gli altri. La seconda prospettiva, pur non negando le dimensioni fisico-chimiche e biologiche dell’uomo, inserisce tali caratteristiche in un ambito più ampio, in grado di rendere conto di comportamenti tipicamente umani che non possono essere esauriti da quelle dimensioni: la conoscenza, la ragione, la capacità di scegliere liberamente, il linguaggio, l’arte, la religione; in una parola, la cultura.
Questa seconda prospettiva trova la sua prima e paradigmatica esposizione nella cultura occidentale in un passo del Fedone di Platone —richiamato da Pavesi — in cui Socrate afferma che le spiegazioni puramente materiali di quanto cade sotto i cinque sensi non sono risolutive. Socrate, come noto, è stato condannato a morte, e sta attendendo in prigione, insieme ad alcuni discepoli, che il boia gli porti la coppa di veleno. La conversazione verte sul destino dell’anima dopo la morte. Socrate è convinto che la vita prosegua oltre: le sostanze spirituali devono necessariamente esistere, perché chi ha provato a spiegare il mondo con cause solo sensibili ultimamente ha fallito. «Ed è questo il motivo per cui qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme» (Fedone, 99 b-c). Socrate vuole insegnare che la ricerca di cause puramente materiali aggiunge solo un tassello di domino alla fila degli altri tasselli — «un Atlante più potente» —, facendo tale fila idealmente lunga all’infinito ma incapace di rendere da sola ragione di se stessa.
Se questo è vero per le cose, ancora di più lo è per l’uomo: i materialisti gli parevano cadere «[…] nel medesimo equivoco di colui che dicesse che Socrate fa tutto ciò che fa con l’Intelligenza, ma poi, quando venisse a dire in particolare le cause di ciascuna delle cose che io faccio, dicesse, prima, che io sto seduto qui, perché il mio corpo è fatto di ossa e di nervi, e perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le une dalle altre e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi e avvolgono le ossa insieme con la carne e la pelle che li ricopre; e, poiché le ossa sono mobili nelle loro giunture, allentandosi e distendendosi i nervi, fanno sì che io sia ora capace di piegare le membra, e per questa causa appunto io ho piegato le membra, e per conseguenza me ne sto ora qui a sedere; e così pure se, volendo spiegare il mio conversare con voi, egli indicasse cause di questo genere, come la voce, l’aria e l’udito, e adducesse altre infinite cause di questo tipo, trascurando di dire le vere cause, e cioè che, poiché gli Ateniesi ritennero meglio condannarmi, per questo anche a me parve meglio star qui a sedere e più giusto stare in carcere a scontare la pena che mi è stata imposta. Perché, corpo di un cane, sono convinto che già da un pezzo questi miei nervi e queste mie ossa se ne starebbero o a Megara o in Beozia […] se io non avessi giudicato più giusto e più bello, invece di svignarmela e scappare in esilio, pagare alla città qualsiasi pena da essa inflittami» (98 c-99 a).
«Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza» (99 a-b), perché confonderebbe i mezzi con le cause.
Nel mondo fisico sperimento costantemente un rapporto di causa-effetto deterministico: se getto a terra un bicchiere, esso cadrà e si frantumerà al suolo; o se di una corda distesa per terra tiro un capo, l’altro mi verrà dietro. Ma nell’uomo ciò non accade: anche a fronte di stimoli, o cause, che farebbero presupporre una sola risposta, o effetto — il caso di Socrate, condannato a morte che dovrebbe fuggire — gli uomini hanno reazioni che non si spiegano in modo puramente fisico, ma solo introducendo realtà che vanno oltre i sensi, quali il bene, la giustizia, il bello, la scelta.
Mi trovo di fronte a una corda che, se ne tiro un capo, l’altro può andare in direzione opposta; a un bicchiere che, se lo lascio cadere, può rompersi, non rompersi oppure addirittura indurirsi, e nulla può farmi con certezza assoluta prevedere l’esito. Una causa puramente fisica di questi fenomeni è inadeguata: sono necessarie cause metafisiche, che cioè vadano oltre la fisica.
Il libro di Pavesi permette di percorrere tali riflessioni in tutto il pensiero occidentale, unendo alla precisione una semplicità davvero fuori dal comune.
(Recensioni da Ignazio Cantoni)