dott. Franco Balzaretti

Vice Presidente Nazionale Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI)

L’enigma del dolore, così centrale per la vita di tutti noi e delle nostre famiglie, risulta sempre più fondamentale per definire e comprendere la natura umana, tuttavia rappresenta anche uno dei grandi temi, che la cultura contemporanea, nel suo tentativo di ridefinire il concetto di uomo, tende di fatto ad escludere dall’orizzonte della riflessione.

L’uomo, nella propria vita, tende, per natura, al benessere fisico e alla felicità, anche se poi egli dovrà magari fare la triste esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore. Ed infatti dolore e sofferenza accompagnano, quasi come un’ombra, la vita di ogni essere umano. Il medico può fare molto per combatterli, anche se, inevitabilmente, di fronte ai propri limiti, a volte si pone degli interrogativi, a cui non è sempre facile dare una risposta.

Ed è proprio con il mistero del dolore che il medico si confronta quotidianamente, nel corso del suo lavoro e costituisce, anzi, l’esperienza fondamentale della sua professione. Per tale ragione risulta indispensabile dedicarci, come medici, all’approfondimento della tematica della sofferenza ed alla ricerca di un suo significato.

Negli ultimi decenni si sta diffondendo, sempre più, un atteggiamento di rifiuto del dolore. Si tratta, per la verità, di atteggiamenti che troviamo sia nel Vecchio Testamento, nel Libro di Giobbe, sia nello stesso sentimento umano di Gesù nel Getsemani: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!” Ed è, purtroppo, un atteggiamento che ci potrebbe anche indurre a valutare la sofferenza, come una situazione razionalmente inaccettabile.

Ma il dolore rappresenta un’esperienza universale e la sofferenza riguarda la totalità della persona.

Quando si soffre è evidente come il “malessere” sia completo. Il dolore puó anche riguardare solo una parte del corpo, ma la sofferenza coglie sempre l’intero essere umano. Oltretutto il progresso della medicina ci induce, talvolta, a pensare che tutto sia risolvibile con un farmaco, con una terapia o, al limite, con un intervento chirurgico. E’ una tendenza, ma anche un limite, della nostra società dei consumi. Così la sofferenza invece di essere vissuta (affrontata e sconfitta), viene allontanata e, addirittura, negata. Una condizione da sfuggire o cancellare, con l’illusione che non esista o che sia un problema solo degli altri.

E così, quando siamo sani, nutriamo, giorno dopo giorno, un sogno utopico: che la malattia, il dolore e ancor più la morte siano ombre che toccano solo la vita degli altri e mai la nostra. Per cui facciamo fatica a metterci nei panni di chi è ammalato; facciamo fatica a pensarci in una corsia di ospedale ad aspettare una diagnosi infausta o sotto una lampada scialitica per un intervento chirurgico. Ma quando immaginiamo questi momenti di vita, che presto o tardi toccano quasi a tutti, insorge prepotente un desiderio: quello di essere trattati con umanità, con cuore, con amore.

Sono considerazioni che interpellano la nostra coscienza e ci fanno riflettere, in un contesto culturale che, riguardo al soffrire e al morire, si oscilla tra due atteggiamenti, per molti versi antitetici: rimozione e spettacolarizzazione. La spettacolarizzazione del dolore, la morte esibita, la curiosità morbosa dell’orrore o del particolare macabro, la sofferenza reale di altri uomini registrata da un occhio virtuale e osservata attraverso la mediazione protettiva dello schermo televisivo, costituiscono a volte una sorta di rituale. Nell’era di internet e della comunicazione globale non sono più le opere d’arte (sculture, quadri, vetrate….) per quanto straordinarie, a documentare la realtà della sofferenza e della morte.  Siamo investiti, si può dire ogni giorno, da immagini di catastrofi e di guerre, di volti e di corpi straziati dal dolore e dalla violenza di svariati orrori, nelle forme anche più perverse e disgustose.

Dolori documentati e filmati nei minimi particolari, spesso senza quel pudore, che dovrebbe essere un riflesso istintivo di fronte al dolore e alla morte. Eppure, paradossalmente, quanto più siamo informati sulla sofferenza, tanto più siamo portati a rimuovere il confronto con essa. E questo processo di rimozione avviene, sostanzialmente, mediante la ricerca esasperata del piacere o della gratificazione, oppure attraverso la fuga dalla realtà, che va dall’irresponsabilità, fino ad una vera e propria deconnessione psichica.

Ma la rimozione culturale della sofferenza non può, comunque, eliminare realmente la sofferenza dalla vita dell’uomo, anzi finisce per amplificarne gli effetti negativi, proprio perché la priva di significato e la chiude ad ogni possibile speranza. In tale contesto culturale, diventiamo più superficiali e sordi verso la sofferenza; incapaci di aprirci a chi soffre, con uno sguardo veramente solidale, amico e fraterno.

E comunque la sofferenza rimane poi sempre un mistero. Un mistero non tanto e non solo come realtà che sfida la ragione umana – quindi come qualcosa che in fondo resta sconosciuto –, ma come realtà che ci trascende, che si fa sentire come più grande di noi, che non è pienamente dominabile, di cui non riusciamo a disporre totalmente,  e che si trova in continua evoluzione verso i due possibili estremi: la guarigione e la  morte.

Alla scuola del malato

E’ noto a tutti che, in genere, si impara e si diventa esperti quando nella concretezza delle cose (e non solo teoricamente) si vive direttamente una data realtà; e questo vale soprattutto per la sofferenza. E così lo stare accanto a quanti soffrono rappresenta una straordinaria opportunità, per essere discepoli alla scuola della vita e della umanità più vera. Per cui parla di una vera e propria scuola del malato.  Sì  perchè il malato ci educa a:

  • scoprire i valori essenziali della vita: è strano, però spesso capita di scoprire quanto sono importanti e preziose le persone con le quali si vive insieme, solo nel momento in cui sopraggiunge la sofferenza;
    • a scoprire il limite e la provvisorietà della vita umana: il vissuto di sofferenza nelle piccole e grandi imprese della vita obbliga a pensare più umilmente riguardo a se stessi;
    • a comprendere, alla luce della fede, che la sofferenza, pur conservando i vari aspetti negativi, che la caratterizzano, se viene proiettata sullo sfondo della croce di Cristo, assume significato che va oltre la semplice valorizzazione umana.

Il medico  e  la  sofferenza

Quale aiuto può e deve dare, il medico, al di là di una terapia, ad un ammalato sofferente?  La risposta più bella si trova, forse, in questa citazione di  S. Giuseppe Moscati : O Signore, concedimi sempre di trattare il dolore non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima a cui io medico, suo  fratello, accorro con l’ardenza dell’amore, la  carità “. L’incontro con la malattia e quindi con il dolore crea infatti nell’uomo uno stato di fragilità e di bisogno; un bisogno di aiuto, di solidarietà e di comprensione.

Ma proprio il dolore a volte può costituire non una barriera, ma anzi un ponte tra due persone, l’una (il medico) tesa, per sua formazione e finalità, a sconfiggere il dolore, l’altra (il malato) ad attendere, spesso con ansia e timore – talora addirittura con disperazione – un atto, un atteggiamento, un gesto di comprensione e condivisione.

Credo che, alla luce di queste considerazioni, sia forse necessario rivedere la figura del medico, dal momento che anche il tradizionale rapporto fiduciario tra medico e paziente si è notevolmente inaridito. Ed in modo particolare sarebbe auspicabile che tutti i medici – cattolici e non –  pensassero, nel momento in cui si avvicinano ad un paziente, che il malato non è solo un corpo sofferente, ma una persona, con la sua dignità, in cui è presente uno spirito e un’anima; per cui l’agire medico deve essere, permeato dall’humanitas verso i sofferenti.

Ed il medico è, da sempre, vincolato non solo dalle leggi dello Stato ma anche da quelle della propria coscienza ed, in ogni caso, non si deve mai dimenticare che l’ammalato è innanzitutto una persona da rispettare e amare, in quanto é più fragile di altre, per la sua condizione psico-fisica di maggiore debolezza e precarietà.

Un altro aspetto molto rilevante ed attuale è, senza dubbio, il confronto con la sofferenza o con la morte di un bambino, che rappresenta, senza dubbio, la prova più dura per tutti: genitori, familiari, medici ed operatori.  Ed ecco che in Belgio si propone, proprio in questi giorni, di estendere l’eutanasia anche ai bambini. Ma estendere l’eutanasia, già di per se fortemente controversa ed inaccettabile per gli adulti, anche ai bambini vuol dire stravolgere le fondamenta etiche e morali della nostra società, violando la dignità della persona umana.

Ecco perchè il 27 novembre è stata una giornata tristissima, e non solo per il Belgio, dove si è assunta una delle decisioni più difficili, con un voto politico, che va a toccare l’indicibile: il dolore e la morte dei bambini. E’ stata infatti approvata una proposta di legge che mira a estendere ai minori la legalizzazione dell’eutanasia, previo il parere di uno psicologo, che attesti la capacità di discernimento dell’interessato.

Si tratta, evidentemente, di una decisione gravissima, che non ho difficoltà a considerare agghiacciante e sconvolgente, in quanto offende gravemente non solo la coscienza cristiana, ma gli stessi diritti umani: il diritto alla vita, il diritto a essere curati, soprattutto se minori e malati, il diritto, per i minori, a essere difesi nei momenti di fragilità, il diritto per i malati mentali a essere assistiti. Diritti che sono, oltretutto, contemplati in tutti i Codici etici e resi obbligatori, dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.

Conclusioni

Anche se il malato non riesce più a comunicare o a rispondere, egli continua a vivere in un contesto di  relazionalità. La fragilità e l’impotenza richiedono quindi una presa in carico, da parte di medici, operatori, familiari, amici e di tutta la comunità. Una presa in carico permeata di competenza, di empatia, di condivisione e di amore. E’ questa la vera risposta alla sofferenza, comunque essa si manifesti e segni la vita umana, ed è anche un inconfondibile indicatore dell’umanesimo di una cultura e del livello di civiltà che essa ispira. E’ questa la luce che scende dalla Croce di Gesù; che scende sulle nostre croci umane, nella vita di tutti i giorni, e le riempie di significato. E questa luce si rivela non come un’idea, ma come una Presenza reale: il Gesù crocifisso, che abbraccia e accompagna non solo il sofferente, ma anche chi è chiamato a prendersi cura del sofferente, con tutto l’amore che dalla Croce continua, incessantemente, a fluire su tutti noi e  sull’intera umanità!

Per cui Scienza e Fede non possono essere mai disgiunte ed essere considerate indipendenti l’una dall’altra, soprattutto in la medicina ed in modo particolare per l’approccio alla persona sofferente : il medico sarebbe poco credibile.Il medico, ed in particolare, il medico cattolico, per essere credibile, deve saper unire con grande equilibrio ed armonia Fede e Ragione, senza eccedere né in un fideismo fondamentalista, né  in un raziocinio esagerato.

E  la Lettera Apostolica Salvifici Doloris del 1984 ce lo ricorda puntualmente: “Il compito del medico è arduo perché ha in cura la persona umana: una creatura che è immagine di Dio e, in quanto persona, comprende in mondo inscindibile spirito e corpo. “Buon Samaritano” è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come l’aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane l’unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l’uomo sofferente.”

La Chiesa, attraverso a questa Lettera Apostolica, che dopo trent’anni dalla sua promulgazione continua ad avere una straordinaria attualità, rivolge quindi ad ogni medico, in modo particolare se è cattolico, il suo invito accorato a mettersi sempre al servizio dell’ammalato, in un clima sereno ed improntato all’amore, alla solidarietà ed al rispetto reciproco, così come dovrebbe essere tra chi, come noi: spezza lo stesso pane.

E vorrei quindi concludere con il mio augurio ad ogni medico: di poter sperimentare, ogni giorno di più, la gioia profonda che nasce dal servire questi nostri fratelli più piccoli, che sono quella moltitudine inesauribile di sofferenti nel corpo e nella mente, nei cui occhi splende la luce del Cristo vivente. Una luce che, pur tra le molteplici difficoltà, in cui ogni giorno prestiamo la nostra opera, non si esaurisce e non si spegne mai, ed anzi ci sostiene sempre con forza, aiutandoci ad andare comunque avanti con coerenza, con coraggio, con fiducia.

E questo, nonostante le avversità che incontriamo giorno dopo giorno e che si sono particolarmente accresciute con la crisi economica, ma anche per un’inquietante e, se vogliamo, ancor più preoccupante, crisi di valori E nonostante anche alcuni ineludibili atteggiamenti discriminatori, da parte della cultura dominante e di alcuni poteri forti, nei confronti di noi cattolici e della nostra etica, che è cristiana sì, ma che è senza ombra di dubbio anche un’etica universale, a difesa dei diritti di tutti ed in particolar modo dei più deboli.

dr. Franco Balzaretti