di Vincenzo Antonelli* – Il recente dibattito sul disegno di legge sulle unioni civili ha riaperto il confronto sulla maternità surrogata e sulla necessità o meno di tutelare giuridicamente il desiderio di avere un figlio. Il legislatore italiano con la legge n. 40 del 2004 ha imposto espressamente il divieto di realizzare, organizzare o pubblicizzare la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità introducendo un vero e proprio reato penale. Si tratta di un divieto che ad oggi non è stato travolto da pronunce di incostituzionalità. Anzi la Consulta, nel dichiarare con la nota sentenza n. 162 del 2014 incostituzionale l’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui impedisce il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo a coppie nelle quali ad uno dei coniugi sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, ha ribadito la validità e l’efficacia del divieto di surrogazione di maternità.
La vigenza nel nostro Paese del divieto di ricorrere alla maternità surrogata non ha impedito, tuttavia, il fenomeno del turismo procreativo. La pratica della maternità surrogata travalicando i confini degli ordinamenti nazionali ha posto, pertanto, il problema di individuare la disciplina da applicare a comportamenti assunti all’estero da cittadini italiani. Il turismo procreativo pone, infatti, problematiche sia civilistiche concernenti lo status giuridico da riconoscere nel nostro paese ai figli nati fuori dai confini nazionali a seguito di surrogazione, sia penalistiche relative alla punibilità di reati commessi all’estero. Problematiche alle quali cercano di far fronte la proposta di sanzionare penalmente sul piano internazionale le pratiche di surrogazione di maternità o la sottoscrizione a Parigi della “Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata”.
Le diverse prospettive dei soggetti coinvolti
Per orientarsi nell’accesso dibattito pubblico è opportuno analizzare le diverse prospettive dei soggetti coinvolti nelle pratiche di surrogazione: la coppia, la donna gestante e gli eventuali donatori di gameti, i nascituri e i figli. Ognuno di questi soggetti è, infatti, portatore di aspettative e pretese.
Tradizionalmente il dibattito ha preso le mosse dalla situazione della donna gestante e, dunque, si è concentrato sulla possibilità di considerare o meno lecita la disposizione del proprio corpo: un limite in tal caso è stato individuato nel carattere lucrativo o quanto meno economico dell’accordo tra la coppia e la gestante. La “commercializzazione” della “gestazione per altri”, al di là della violazione dei divieti imposti nel nostro ordinamento alla possibilità di disporre del proprio corpo, finisce per ledere la dignità della donna attraverso lo sfruttamento di situazioni di disagio sociale ed economico. Posizione ribadita anche dal Comitato nazionale di bioetica il 18 marzo che ha ricordato “che la maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione. […] tale ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, [è] in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali”, che emergono dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, secondo il quale “il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”, e dall’art. 3 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali.
Alla visione prettamente libertaria – secondo la quale ai soggetti dovrebbe essere consentito di disporre liberamente del proprio corpo anche dietro compenso – viene contrapposta una visione cd. “solidaristica” basata sulla gratuità, e la conseguente liceità, della sostituzione di maternità. Tuttavia, anche questa lettura si scontra con il divieto assoluto posto dalla legge n. 40 del 2004, che non distingue tra surrogazione onerosa e gratuita.
Il presunto diritto ad avere un figlio
La discussione parlamentare sulla possibilità per gli omosessuali di adottare i figli del partner ha spostato il confronto sui desideri della coppia tanto eterosessuale quanto omosessuale. Secondo la prospettiva della coppia il divieto di maternità surrogata lederebbe un presunto diritto ad avere figli, un diritto che ha assunto molteplici e differenti qualificazioni soprattutto a seguito di alcuni interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo: diritto alla piena realizzazione della vita privata familiare, diritto alla formazione di una famiglia con figli, libertà di autodeterminazione della coppia (non solo per quelle incapaci di procreare), diritto alla genitorialità, diritto alla maternità/paternità.
Riemergono così le contrapposte posizioni che hanno caratterizzato il dibattitto sul divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e che hanno portato la Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014 ad affermare che “la scelta [della] coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che […] è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”.
La libertà di autodeterminazione non può, tuttavia, risolversi in una pretesa assoluta alimentata dai traguardi scientifici, che sacrifichi libertà e diritti altrui o comunque interessi e beni parimenti protetti dall’ordinamento.
Questa considerazione sposta la riflessione sui nascituri e sui bambini. Ad oggi il dibattito si è concentrato sulla possibilità o meno di riconoscere lo stato di filiazione al bambino nato da maternità surrogata, anche attraverso la trascrizione nel nostro paese degli atti dello stato civile formati all’estero. A tal riguardo alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno configurato “un diritto al rispetto della vita privata del figlio, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione, comprendente il diritto all’identità personale sotto il profilo del legame di filiazione”: un diritto “allo stato di figlio” o un diritto “ad avere dei genitori”. Si tratta di un diritto – riconosciuto dai giudici solo in caso di maternità surrogata “parziale”, in cui il nato sia legato sul piano genetico ad almeno uno dei membri della coppia – che dovrebbe rispondere all’esigenza di garantire al nascituro, e successivamente al nato, stabili relazioni parentali.
Al contempo da più parti viene prefigurato un diritto del nascituro alla conoscenza della propria origine genetica, diritto che metterebbe in discussione la pretesa della gestante all’anonimato e a non avere alcuna relazione giuridica parentale con il nato.
Lo sforzo di confezionare diritti per i bambini nati da pratiche di surrogazione di maternità finisce per occultare il fatto che la loro nascita è rimessa ad un accordo – più o meno commerciale – tra adulti così come al medesimo accordo è affidata la definizione dei loro diritti. Sembra, dunque, che i nascituri e i bambini costituiscano in molti casi un prodotto con valore di scambio, oggetto di pretese altrui.
Il conflitto tra surrogazione e adozione
Se muoviamo dalla prospettiva dei bambini, di quelli già nati, ci accorgiamo che la surrogazione di maternità, come ripetuto dalla Corte di Cassazione, si pone oggettivamente in conflitto con l’adozione “perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato”.
La maternità surrogata ci mette di fronte ad un groviglio di desideri e aspettative (delle coppie), ma anche doveri e tutele (verso i bambini). Il rischio è di affidare alla scienza e alla mera volontà delle parti la scrittura dei diritti tanto dei bambini quanto degli adulti, così come non convincente è la scelta di affidare del tutto ai giudici il compito di “creare” nuovi diritti. Solo un sereno e condiviso confronto sociale e un maturo ed ampio dibattito politico nelle aule parlamentari possono porre le basi per adeguate soluzioni giuridiche.
*Componente del Centro Studi dell’Azione Cattolica