Riflessioni del Dott. Don Roberto Valeri, Assistente spirituale UCFI Milano

L’esperienza terribile e inaspettata del virus che ha flagellato l’Italia e non solo ci ha resi più consapevoli del concetto di fragilità e messo in luce la questione della dipendenza relazionale dell’uno con l’altro, della bellezza dell’amicizia, della necessità di abbracciarci di sorridere, piangere, e cantare insieme.

A dire il vero sperimentiamo anzitutto come credenti, la nostalgia della Chiesa come luogo in cui la relazione con Dio e con gli altri è più reale di quanto pensassimo. Uomini e donne mendicanti di Salvezza e Cristo mendicante di ciascuno di noi per offrirci ciò che desideriamo di più: l’eternità in un incontro ineffabile e la qualità etica dei rapporti segnati dalla carità.

In un tempo dove sembrava importante dare la morte, dove sembrava che tutti avessimo il problema di come morire ed evitare qualsivoglia sostegno alla vita, talora chiamato impropriamente accanimento, ora in questo tempo virale, improvvisamente l’attenzione sembra essersi rovesciata: si cerca la vita e tutti sostegni ad essa.

Si ripropone ora la questione del rapporto costo-beneficio e la grande realtà della proporzionalità della cura. Se da una parte della bilancia si pone la questione economica o meramente tecnica, dall’altra appare la priorità della salvezza della persona, a fronte della quale, qualunque rischio economico dovrebbe essere giustificato e qualunque difficoltà tecnica risolta. Alla Culumbia University ,alla metà degli anni ottanta, si calcolò che per salvare un bambino di 450 grammi veniva spesa la somma di centomila dollari, ma questa sproporzione era giustificata. Cosa offre questa giustificazione? In termini di linguaggio terapeutico, si preferisce parlare di rapporto fra rischio e beneficio.  Ma anche di altri valori in gioco: ad esempio il rapporto fra costi ed efficacia dove si deve valutare la possibilità reale oggettiva, di risolvere la patologia in corso con risorse comunque limitate e con altri che necessitano di cure e premono su dette risorse (il dramma deontologico delle terapie intensive)[1]. L’aspetto valoriale offerto dal credo da un contributo alla decisione da prendere?

Non c’è alcun dubbio che occorre avere ben chiaro il valore trascendente della persona per noi cristiani creata in Cristo che può esigere il primato dell’uomo sull’economia. Ma questo non è più scontato da quando si sono inseriti nella comprensione della realtà e dell’individuo, il principio di qualità della vita a scapito della sacralità, quando imperversa il soggettivismo,  tale per cui ognuno è libero di agire arbitrariarmente senza confrontarsi, usando i propri valori soggettivamente ma con un grave rischio come annota lucidamente J.E. Newman: “è consentito accogliere o rifiutare questa o quella opinione a nostro piacere; il credere riguarda riguarda questa o quella opinione a nostro piacere; il credere riguarda solo l’intelletto e non anche il cuore; ci possiamo fidare di noi stessi in materia di fede senza bisogno di alcun’altra guida. Questo è il principio delle filosofie e delle eresie, questo è il principio della debolezza[2]. Tante teorie, tante visioni dell’uomo che non sempre pensano la persona in chiave cristiana e talvolta la pensano solo in chiave brutalmente funzionale come vorrebbe il funzionalismo.  Ma la grande perdita del concetto di unicità dell’uomo come creatura di Dio,  è proprio la perdita di Dio. L’uomo non è più creatura di Dio  ma insieme di cellule, geneticamente determinato con un inizio e una fine, privo di libertà determinato da una cultura o luogo geografico, come un robot:  quando non funziona occorre disporne la fine. Questo basta al nostro cuore?

Questo periodo ha rimesso la questione uomo, e uomo malato, fragile, al centro della riflessione politica ed economica identificando un nuovo rapporto con l’allocuzione delle risorse pubbliche e con la capacità di uomini e sistemi che rispondono alle esigenze del momento.  Pensiamo a quanto si è straparlato del sistema sanitario lombardo.

Ha messo in evidenza, questo periodo,  il grande desiderio di vita e non di morte, il desiderio della relazione e della cura del malato, cura non solo in chiave terapeutica ma anche relazionale. Pensiamo ad esempio a quanti hanno sofferto per non aver potuto stare vicino ai propri cari in difficoltà. Il rischio di una cultura che dimentica l’uomo è evidente. E di una cultura che marginalizza Dio lo è altrettanto.

Come cristiani, oggi come non mai,  abbiamo la responsabilità di far notare il rapporto fra Dio Padre e ogni uomo che in Cristo è figlio e dunque con una dignità che merita sempre il massimo dell’impegno ma anche come  per il cristiano ogni tribolazione apre ad un bene maggiore: l’eternità. Il cristiano è la sentinella di questo rapporto e può mostrarne tutta la bellezza e il significato forse oggi più tangibile: più siamo abbracciati a Cristo più acquistiamo valore di fronte a qualsiasi urgenza, più siamo abbracciati a Cristo più  guardiamo al nostro compimento nella Vita eterna.

Dr. Don Roberto Valeri

[1] Per riferimenti esaustivi: E.Sgreccia, Manuale di Bioetica, Aspetti medico sociali, vol. II, 560-606; Milano 2002;    anche: Sacra congregazione della dottrina della fede del 5 maggio 1980, Jura et bona,  n.4, AAS, 72 (1980), 542-552

[2] L.Orbetello (ed), J.E.Newman. Lo sviluppo della dottrina Cristiana, Milano 2002, 345