Dr. med. Ermanno Pavesi
La medicina diventa disciplina universitaria
Le virtù, e in particolare la virtù della prudenza, sono importanti per l’attività medica? Questa domanda pone dei quesiti di principio. La prudenza è una virtù che presuppone un ordine morale, ma l’attività medica deve esservi soggetta o può autoregolarsi?
Già il Giuramento di Ippocrate aveva introdotto dei limiti morali alla pratica medica, ma probabilmente solo l’Umanesimo rinascimentale italiano ha affrontato la questione in modo sistematico per rispondere a una situazione molto concreta. Prima della fondazione delle Università discipline come la teologia, la giurisprudenza e la medicina erano coltivate separatamente in ‘scuole’, come la scuola medica di Salerno: «Come confermano testimonianze del X e dell’XI secolo ampiamente documentate – scrive lo storico della medicina tedesco Heinrich Schipperges (1918-2003) –, un gruppo di medici si era riunito in un collegium hippocraticum che ben presto istituì uno studium salernicum, nel cui spirito di cooperazione fra allievi è da ravvisare senz’altro un primo modello universitario». Dal 1088 è documentato a Bologna uno studium di giurisprudenza, cioè il suo insegnamento sistematico. L’ordinamento degli studi medievale, però, ha raggiunto la sua forma più completa con la nascita dell’università che ha incorporato tanto la cosiddetta Facoltà delle arti, cioè delle arti liberali, come propedeutica allo studio universitario vero e proprio, quanto le tre facoltà universitarie: teologia, giurisprudenza e medicina, quest’ultima includeva anche le scienze naturali. In questo modo tutte le branche del sapere erano insegnate in una unica istituzione.
Per Schipperges «L’assimilazione della scienza medica nell’università, nell’ambiente accademico – circostanza, questa, per nulla ovvia» è stata un’importante prestazione della cultura medievale. Effettivamente, nei secoli precedenti non c’era stata unanimità sulla collocazione della medicina nell’ambito del sapere umano. Il teologo e vescovo Isidoro di Siviglia (560-636), per esempio, definiva «categoricamente la medicina ‘seconda filosofia’ (secunda philosophia), dacchè anche questa disciplina è al servizio dell’uomo nel suo complesso. La scienza medica tocca ogni scienza e ogni arte, e il medico ha a che fare – non accidentalmente, bensì per principio – con ogni campo della cultura». Il teologo e cardinale Ugo da san Vittore (1096-1141), invece, annoverava la medicina tra le sette arti meccaniche insieme, per esempio, a industria tessile, metallurgia, commercio e agricoltura, arti necessarie alla vita di tutti i giorni, che corrispondevano, con una dignità minore, alle sette arti liberali, che invece comportano forme di conoscenza intellettuale.
L’inserimento tra le discipline universitarie ha in qualche modo nobilitato la medicina da attività basata prevalentemente sull’esperienza pratica a disciplina con una dignità accademica e con un corso di studi ben preciso, basato, allora, prevalentemente sulla filosofia della natura di Aristotele (384-322 a.C.) mediata da autori arabi. Questa filosofia negava tra l‘altro l’esistenza di un’anima spirituale individuale, la sua sopravvivenza dopo la morte e il libero arbitrio, negava pure la creazione e ammetteva piuttosto l’eternità del mondo, mentre influenze astrali sostituivano l’azione della grazia e della provvidenza, tesi queste incompatibili con la filosofia, la giurisprudenza e la teologia dell’Occidente cristiano.
Nel XII secolo l’autorità di Aristotele e di riflesso dei suoi commentatori arabi, soprattutto di Mohammed Ibn Ruschd, il filosofo arabo nato a Cordoba e noto in Occidente come Averroè (1126-1198), sembrava indiscussa, le loro conoscenze e interpretazioni delle scienze naturali erano considerate incontrovertibili ed esercitavano nelle università una forte attrazione tanto sugli studenti quanto sui docenti, con la formazione di una corrente filosofica chiamata averroismo. La pretesa di costruire una visione dell’uomo e del cosmo partendo unicamente dalle scienze naturali con l’esclusione della fede ha provocato una crisi nella cultura del tempo, come ha rilevato Benedetto XVI: «Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo».
La reazione dell’autorità religiosa e degli Umanisti all’averroismo
Nel corso del XIII secolo la filosofia averroista si è diffusa progressivamente all’università di Parigi che allora era il più importante centro culturale dell’Occidente cristiano nonostante le ripetute condanne da parte dei pontefici e dei legati pontifici. Anche teologi come san Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), sant’Alberto Magno (1193/1206 -1280) e san Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) si sono dovuti confrontare con l’averroismo.
Il Cancelliere dell’università, il vescovo Étienne Tempier (†1279), ha condannato due volte tesi averroiste insegnate a Parigi: nel 1270 ne ha condannate13 e 219 nel 1277. Tempier è stato accusato di oscurantismo e di subordinare la filosofia alla teologia, ma la condanna di tesi come: «2) La proposizione “l’uomo pensa” è falsa e impropria”: […] 4) tutto ciò che avviene nel mondo sublunare è sottoposto all’influsso dei corpi celesti; […] 9) il libero arbitrio è una potenza passiva, non attiva, mossa necessariamente dal desiderio» sembra dettata piuttosto da un sano realismo filosofico.
Anche uomini di cultura laici e letterati hanno criticato questo nuovo indirizzo, anzi, il filosofo e storico della filosofia Eugenio Garin (1909-2004) spiega l’origine dell’Umanesimo come reazione al determinismo astrologico dell’averroismo: «[…] si era aperto l’umanesimo nascente allorché, per bocca di Petrarca, aveva rivendicato la libertà e la dignità dell’uomo contro il fato stellare, e la razionalità contro le superstizioni e le credenze magiche. Aveva scritto Petrarca con limpida eloquenza classica: “Lasciate libero il cammino della verità e della vita […]. Non possono esserci guide quei globi di fuoco […]. Le anime virtuose, protese verso il loro sublime destino, sono rischiarate da una più bella luce interiore”. […] Petrarca, vedeva tutta l’insidia del determinismo stellare, e temeva una distruzione della libertà di iniziativa umana attraverso una indiscriminata necessità naturale».
Francesco Petrarca (1304-1374) considera polemicamente la medicina come un’arte meccanica e nelle Invective contra medicum accusa un medico della curia papale di essere unicamente un meccanico. «In che modo potrei considerarti filosofo, sapendo che sei un meccanico mercenario? […] Tu che vuoi essere considerato un filosofo».
L’umanista e uomo politico fiorentino Coluccio Salutati (1331-1406) ha descritto in modo sistematico i limiti delle scienze naturali nei confronti delle scienze umanistiche e della giurisprudenza: «Salutati, come Petrarca nella cui successione si trova, si prefigge piuttosto lo scopo di dimostrare come la medicina, e insieme a lei le scienze naturali in genere, e il razionalismo che stava alla loro base, abbiano una portata limitata e tecnica e che quindi non possano essere assolutizzate».
Nel Della nobiltà della giurisprudenza e della medicina Salutati mette a confronto la dignità della scienza giuridica e di quella medica, esaminandole sotto vari aspetti, come, per esempio, l’oggetto, il fine ultimo, l’utilità, la necessità, la certezza delle leggi, e constata la totale superiorità della giurisprudenza: «La scienza delle leggi, come la politica, prende in considerazione l’uomo, non il corpo umano ma le sue azioni per mezzo delle quali si distingue da tutti gli altri esseri animati, composti di materia e forma. […] Per questo, quelli che considerano l’uomo come un essere politico, come le leggi, devono scrutare l’anima, le parti dell’anima, l’habitus, le passioni e le potenze da cui procedono e che regolano le azioni umane, di cui le leggi sono ragione e regola». La medicina, invece, si limiterebbe alla conoscenza di certi aspetti del corpo umano e delle proprietà curative delle cose, non della loro essenza e così Salutati afferma categoricamente: «[…] l’arte e la scienza delle leggi è incomparabilmente più nobile dell’arte e della scienza medica» e «[…] per il bene perseguito, il diritto è superiore alla medicina, che si occupa e preoccupa della salute, cioè di un bene naturale».
L’uomo è un essere fragile che durante tutta la sua esistenza si trova in una condizione di salute in equilibrio precario con il rischio permanente di uno squilibrio più o meno grave. Scopo della medicina è di prevenirlo con una sana dietetica e cercare di riequilibrarlo con interventi medici o chirurgici. Per Salutati, come del resto anche per altri Umanisti, il fine dell’uomo non può essere unicamente un benessere fisico più o meno completo, ma la felicità che dipende da una vita retta che considera la cura dell’anima più importante di quella del corpo. Fine dell’uomo deve essere il proprio perfezionamento che può avvenire solo con la pratica delle virtù e con la propria formazione «[…] che deve essere intesa letteralmente come formazione dell’uomo a uomo, come realizzazione dell’essere-uomo, della “humanitas”». Contrariamente a una tesi corrente che una caratteristica fondamentale dell’Umanesimo sarebbe stata l’emancipazione dal cristianesimo, Petrarca afferma, per esempio: «[…] e quanto più sento che si parla contro la fede di Cristo, tanto più lo amo e mi rafforzo nella mia fede in lui. Mi càpita proprio come a chi abbia intiepidito il suo affetto verso il padre, ma che, se ne sente parlar male, torna immediatamente ad ardere di quell’amore che pareva sopito. E così deve essere, se è un vero figlio. Spesso, ne chiamo testimone Cristo, le bestemmie degli eretici mi hanno fatto diventare, da cristiano, cristianissimo».
Dall’etica medica alla bioetica
Il termine bioetica era già stato utilizzato da alcuni autori, per esempio dal biochimico Van Rensselaer Potter (1911-2001) in un articolo del 1970: Bioetica, la scienza della sopravvivenza e l’anno successivo nel libro Bioetica, ponte per il futuro. Con bioetica Van Rensselaer Potter intendeva un nuovo approccio per l’etica con l’armonizzazione di conoscenze biologiche e valori umani per rimediare a problemi posti dal degrado ambientale. Quasi parallelamente il termine bioetica è stato utilizzato nel significato attuale nell’ottobre 1971 in un comunicato stampa dell’Università Georgetown di Washington, una università privata della Compagnia di Gesù, che annunciava la nascita, grazie alla Fondazione Kennedy, di un istituto che si proponeva di essere «pioniere nello sviluppo di un nuovo campo di ricerca interdisciplinare che i fondatori dell’istituto hanno chiamato bioetica»; si è trattato di una tappa decisiva in un percorso iniziato negli anni precedenti soprattutto con il contributo di teologi e medici cattolici.
La bioetica ha avuto il merito di coinvolgere nella riflessione sulle questioni etiche della medicina non solo rappresentanti di altre confessioni e religioni ma anche di specialisti laici, al prezzo, però, di trovare gradualmente un consenso al ribasso fino a posizioni relativistiche, ciò che pone seri problemi alla coscienza del medico, soprattutto di quello cattolico.
Tristram Engelhardt jr. (1941-2018), filosofo e medico, cresciuto cattolico ma diventato membro della Chiesa ortodossa del Texas nel 1991, è stato uno dei protagonisti della trasformazione della bioetica e riconosce che: «La bioetica cristiana è servita come un passaggio intermedio per la nascita di una bioetica laica», descrive pure la «[…] comparsa della bioetica cristiana e la sua eclissi nel predominio a livello mondiale di una bioetica filosofica e secolare», e ammette che «Dopo una breve fioritura, la bioetica cristiana è diventata simile alle sue versioni secolarizzate». Secondo Engelhardt una bioetica cristiana che non cerchi l’omologazione con la bioetica laica mostrerebbe un carattere settario e offenderebbe lo spirito ecumenico, proprio perché: «Ciò che di cristiano c’è nella bioetica cristiana costituiva di per sé un problema». A parte il paradosso di un trattato di bioetica cristiana che sostiene che «Ciò che di cristiano c’è nella bioetica cristiana costituiva di per sé un problema», si può anche riconoscere che, viceversa, la bioetica attuale può rappresentare un problema per il medico cristiano.
Un altro protagonista degli sviluppi della bioetica, il medico Edmund Pellegrino (1920-2013), dal 1978 al 1982 undicesimo presidente della Catholic University of America (CUA) e per anni direttore del Kennedy Institute of Ethics presso la Georgetown University, ne ha giustificato la trasformazione poiché i progressi della medicina presenterebbero nuove sfide etiche che «non richiedono però un deciso ritorno ai fondamenti classici dei valori etici, sia che si tratti del diritto naturale, del kantismo, dell’utilitarismo, della dialettica o di una fede basata su una rivelazione. Un tale disperato tentativo di trovare fondamenti ultimi per il comportamento morale e culturale sarebbe reazionario e negatore dell’emancipazione e della libertà». In altri termini in bioetica non sarebbe possibile ammettere l’esistenza di valori morali assoluti riguardo a ciò che è bene o male e neppure a principi dell’etica professionale: «Personalmente mi sono limitato al bene del paziente com’è percepito dal paziente e ho evitato la questioni più profonde del bene del paziente dal punto di vista metafisico».
Pellegrino mette in dubbio la sicurezza delle diagnosi e quindi la possibilità per il medico di fondare decisioni e interventi terapeutici basandosi su criteri medici certi, per questo il primato spetterebbe alla volontà del paziente: «Dal punto di vista ‘moderno’ noi non possiamo sapere ciò che è bene per il paziente senza conoscere i suoi desideri. La scelta del paziente è un bene semplicemente perché lui lo desidera. Per fare il bene del paziente noi dobbiamo fare il bene che lui desidera».
Per secoli l’etica medica è stata caratterizzata dal principio Salus aegroti suprema lex, la salute del paziente è la legge suprema, oggi vale piuttosto il principio di beneficialità, il medico deve fare il bene del paziente, ma come sostiene Pellegrino, solo il paziente può decidere ciò che è bene per lui, e il medico deve assecondarne i desideri, così la volontà del paziente è diventata la suprema lex. In questa situazione il medico è ridotto al ruolo di tecnico, a volte non si parla neanche più di pazienti, ciò che presupporrebbe ancora l’esistenza di una chiara diagnosi e di una indicazione precisa, ma di clienti, e, come si dice, ‘il cliente ha sempre ragione’.
È avvenuto quindi un cambiamento radicale: le questioni morali che per secoli sono state elaborate soprattutto dalla medicina pastorale, come parte della teologia pratica, e dall’etica medica rischiano di essere messe da parte e al medico viene richiesto di mettere la sua competenza professionale al servizio della volontà insindacabile del paziente.
La teoria delle virtù
Secondo una tradizione che risale sino alla filosofia della Grecia antica l’uomo deve comportarsi rettamente, cercare di condurre una vita buona e questo è possibile con la pratica delle virtù: «La vita buona per l’uomo – scrive il filosofo scozzese-americano Alasdair MacIntyre – è la vita consacrata alla ricerca della vita buona per l’uomo, e le virtù necessarie per tale ricerca sono quelle che ci consentono di capire che cosa ancora e che cos’altro sia la vita buona». È necessaria anche una «concezione del bene che ci consenta di ordinare gli altri beni, di estendere la comprensione dello scopo e del significato delle virtù, di capire la funzione dell’integrità e della costanza nella vita». Le virtù stanno quindi alla base dell’unità e dell’integrità della persona, cioè anche della sua identità. MacIntyre ha sottolineato il cambiamento della concezione dell’identità personale, dell’Io, con il passaggio alla modernità e ha descritto il contrasto tra un Io premoderno, «la cui unità risiede nell’unità di una narrazione che collega la nascita alla vita e alla morte, come l’inizio di ‘un’opera letteraria», dall’Io moderno: la «modernità suddivide ciascuna vita umana in una molteplicità di segmenti, ognuno con le proprie norme e modi di comportamento particolari. Così il lavoro è separato dal tempo libero, la vita privata da quella pubblica, il collettivo dal personale» con una frammentazione dell’esistenza in ambiti separati.
Se i vari ambiti, come la famiglia, la professione, le convinzioni religiose, il ruolo come cittadino, i rapporti di amicizia e gli interessi culturali vengono considerati separatamente, ciascuno con una propria concezione delle finalità che devono essere conseguite e con le proprie norme, non è possibile una teoria generale delle virtù. La stessa persona potrebbe essere ‘buona’ in alcuni ambiti e in altri no, nella concezione premoderna, invece, è la persona in sé che deve essere virtuosa, e che di conseguenza, si comporta virtuosamente in tutte le sue attività, una persona che, a ragione, può essere definita ‘tutta d’un pezzo’.
Già il filosofo Platone ha descritto quattro virtù: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia che sono state riprese nella classificazione delle quattro virtù cardinali della dottrina cristiana: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Le ultime tre corrispondono esattamente a quelle descritte da Platone, alcune considerazioni del filosofo greco sulla sapienza possono aiutare a comprendere meglio il senso della prudenza: il sapiente attua buone scelte e «il saper attuare buone scelte è una forma di scienza, perché non è l’ignoranza, ma appunto la scienza che lo determina».
Il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) ha dedicato un breve trattato a ciascuna delle virtù cardinali basandosi su testi di Tommaso d’Aquino. Secondo l’ordine delle virtù la prudenza è la prima e la più importante, senza la quale anche le altre tre, per così dire, non potrebbero essere virtuose. Pieper nota come questa gerarchia sia piuttosto ostica per l’uomo contemporaneo, anche per il fatto che per la mentalità moderna prudente è a volte la persona che cerca di evitare le difficoltà, un atteggiamento inconciliabile con un’altra virtù, la fortezza.
Per una azione prudente sono necessari alcuni presupposti: la conoscenza, la riflessione e l’azione. La ‘scienza’, per utilizzare il termine di Platone, è costituita in parte dal sapere teorico, Pieper sottolinea pure l’importanza della memoria, ma, applicata alla professione medica, non si tratta unicamente di ricordo mnemonico di nozioni teoriche, ma della somma delle esperienze cliniche nelle quali tali teorie si sono dimostrate valide. Nella pratica quotidiana c’è il rischio che il paziente sia ridotto a caso clinico, e che sulla base di alcuni sintomi venga applicato automaticamente un qualche algoritmo, attività che potrebbe essere svolta meglio da un computer capace di elaborare diagnosi e terapia sulla base di un questionario compilato dal paziente. «La realizzazione del bene presuppone che il nostro agire sia conforme alla situazione reale – cioè: alle realtà concrete , che ‘circondano’ una concreta azione umana – e che noi quindi prendiamo sul serio queste con certe realtà con lucida obiettività». La virtù della prudenza richiede la riflessione su un tipo di conoscenza che è possibile solamente nell’incontro e nello scambio tra paziente e medico, dove questi deve essere in ascolto del paziente e pronto a mettere in discussione concetti astratti e ipotesi che poteva aver formulato nei primi contatti, ciò che richiede una lucida obiettività. Già Platone aveva descritto come migliore la condotta del medico che «segue il decorso del morbo, lo inquadra fin dall’inizio secondo il giusto metodo, mette a parte della diagnosi lo stesso malato e i suoi cari e, così facendo, nel medesimo tempo impara qualcosa dal paziente e, per quanto gli riesce, anche gli insegna qualcosa. A tale scopo egli non farà alcuna prescrizione prima di averlo in qualche modo convinto, ma cercherà di portare a termine la sua missione che è quella di risanarlo, ogni volta preparandolo e predisponendolo con un’opera di convincimento». I manuali di medicina sono importanti, ma la realtà è più complessa, ogni malato, anche se portatore di una diagnosi, è un unicum, il medico può imparare qualcosa da lui e arricchire la propria esperienza clinica, sempre che sia aperto e disposto all’ascolto; in questo modo è anche in grado non solo di prescrivere una terapia, ma anche, istruendo il paziente sulla diagnosi, di dargli dei consigli personalizzati. È interessante, poi, che già Platone abbia raccomandato al medico il consenso informato. La riflessione deve tenere conto dell’unicità del paziente, cioè come poter applicare principi generali a un caso particolare e non può fare a meno della capacità di prevedere i possibili effetti positivi e negativi di un determinato atto medico, e di tenerne conto. Una riflessione spesso difficile, perché non sempre si può arrivare alla certezza assoluta di aver fatto la scelta migliore e in questa situazione il medico deve agire con solerzia, non prolungando la decisione oltre modo, ma evitando pure la precipitazione.
Nell’esercizio della professione medica sono importanti anche le altre virtù. Tener conto dell’individualità del paziente è anche operazione di giustizia, secondo il principio suum cuique tribuere, dare a ciascuno il proprio, il dovuto.
La virtù della prudenza insegna che la rettitudine deve guidare l’agire umano, ciò che comporta la sua dimensione morale, ma il medico deve gestire situazioni nelle quali la volontà del paziente o le direttive della istituzione nella quale lavora possono essere incompatibili con la sua coscienza morale, come la richiesta di certificazioni di comodo, la prescrizione di medicamenti come antidolorifici, ansiolitici e narcotici senza una chiara indicazione, per non parlare di aborto e di eutanasia. In questi casi il medico deve praticare la fortezza, virtù che consiste, tra l’altro, nella fermezza nel non rinunciare ai propri princìpi ed evitare di compiere azioni cattive in sé, anche se ciò può avere ripercussioni negative sulla carriera. Nel trattato sulla fortezza Pieper ricorda che la sua essenza in casi estremi consiste nella resistenza, come quando «è l’unica possibilità obiettiva rimasta della opposizione e che in tale situazione la fortezza manifesta, per la prima volta e definitivamente, la sua autenticità essenziale». In certi casi l’obiezione di coscienza può richiedere la virtù della fortezza.
La virtù della temperanza comporta anche la moderazione nell’uso dei mezzi e degli interventi. Anche in situazioni critiche è necessario non lasciarsi trasportare da sentimenti e affetti, controllare le ansie e, per esempio, non eccedere negli interventi terapeutici o nel dosaggio di un medicinale, prendendo sempre decisioni ponderate.
Conclusione
Teologia, giurisprudenza e scienze naturali, che comprendono anche la medicina, hanno proprie leggi: divine, umane e naturali. Nel corso della storia il loro rapporto reciproco è stato oggetto di dispute, espressione di differenti visioni dell’uomo e della natura, se, per esempio, l’uomo viene considerato come un ente di natura, soggetto unicamente alle leggi di natura, alle scienze naturali viene riconosciuta l’autorità di stabilire le regole del comportamento umano. La postmodernità ha complicato questo quadro: mentre l’epoca moderna aveva una grande fede nella ragione, diventata addirittura ‘dea ragione’ ai tempi dell’illuminismo, oggi anche la natura e le leggi naturali a volte hanno perso il loro carattere normativo, come nel caso della teoria del gender che prescinde dal carattere sessuale dell’individuo. Questo scetticismo riguardo alla esistenza di leggi oggettive e alla possibilità di riconoscerle con la ragione ha portato al relativismo, anche morale, che caratterizza l’epoca attuale, ciò che ha influenzato anche la bioetica. Ci sono addirittura esponenti importanti della bioetica che invitano il medico a rinunciare nell’esercizio della professione a ispirarsi a «valori etici, sia che si tratti del diritto naturale, del kantismo, dell’utilitarismo, della dialettica o di una fede basata su una rivelazione», perché un tale riferimento «sarebbe reazionario e negatore dell’emancipazione e della libertà». In questa situazione per il medico sono importanti la formazione morale e la pratica delle virtù, in modo da essere in grado di valutare e applicare rettamente le conoscenze scientifiche.