Tra le carte di Paolo VI conservate nell’archivio dell’istituto a lui intitolato, in una cartella di Note varie figura un appunto, non datato ma risalente agli anni del pontificato, intitolato dal papa stesso Dio. Lo anticipiamo in questa pagina, tratto dall’ultimo numero del «notiziario» del centro bresciano, dove lo commenta il teologo gesuita Nicolas Steeves, docente alla Gregoriana.

Insieme all’inedito pubblichiamo il testo pronunciato dal Pontefice all’udienza generale del 22 luglio 1970 (ora compreso in Giovanni Battista Montini, Un uomo come voi. Testi scelti 1914-1978, a cura di Giovanni Maria Vian, Marietti), dedicata proprio alla questione di Dio. In ricordo del Papa morto il 6 agosto 1978, dal libro Processo a Montini (Morcelliana) anticipiamo alcuni brani della postfazione scritta dalla nipote Chiara, figlia di Francesco (1900-1971), il fratello più giovane del Pontefice. Il volume, curato dal giornalista Massimo Tedeschi, presenta una scelta delle 51 testimonianze bresciane, raccolte sin dal 1980 con il consenso della Santa Sede e poi confluite nella Positio della causa di canonizzazione di Giovanni Battista Montini.

*****

Nell’ombra della notte presente
Dio
Desiderio comune delle nostre povere anime, tormentate dai problemi religiosi proprî della mentalità moderna, sarebbe duplice: 1) avere di Dio qualche esperienza diretta; se non vederlo, capirlo; se non capirlo, sentirlo: sitivit in Te anima mea… in terra deserta et inaquosa… [Salmi 62, 3]; 2) avere di Dio qualche segno miracoloso, qualche indizio prodigioso della sua azione onnipotente o della sua amorosa assistenza. Interiore prova la prima, esteriore la seconda.

L’amore del prossimo e poi l’amore di Dio possono dare qualche felice e sufficiente risposta al primo desiderio: chi ama sente, chi ama sa, chi ama gode di Dio; per via di amore si può avere quella certezza nuova che rende sicura e fidente l’anima, lieta di camminare nell’ombra della notte presente verso la luce futura.
La parola di Cristo placa il secondo desiderio, chiedendo un atto profondo di fede: beati coloro che avranno creduto senza aver visto. E questa adesione alla parola di Cristo conforta il pensiero a guardare con occhio ammirato le cose note per esperienza naturale e per conoscenza normale; e a trovarle tutte immensamente eloquenti e indicative, probative anzi, del Dio vivo, nascosto e presente.

*****

Parliamo un momento di Dio
Nell’udienza generale del 22 luglio 1970
Parliamo un momento di Dio. O meglio, parliamo di noi stessi di fronte alla grande questione di Dio. Noi vi invitiamo a questo atto fondamentale per il nostro pensiero, e di conseguenza per la nostra vita morale, per la nostra vita vissuta. È una questione permanente, di tutti i tempi, di tutti gli uomini; ma oggi per tutti è più urgente. Ciascuno s’interroghi: che cosa penso io di Dio? La risposta può essere molteplice; e la possiamo classificare in tre categorie di uomini del nostro tempo: la categoria di quelli che aderiscono alla religione, e accettano senza discutere, e forse senza riflettere, senza avvertire le vertigini, l’ebbrezza, la felicità d’un tale nome, senza approfondire quel senso vago, ma sempre profondo, che quel nome misterioso e potente produce, o dovrebbe produrre nel nostro spirito; ovvero la categoria di quelli che dubitano, di quelli per cui il nome di Dio è avvolto in una nebbia di incertezza, di dubbi, di insoddisfazione; e perciò preferiscono o non pensarvi più, o non aderirvi più, abbandonandosi ad uno scetticismo pratico, pseudo superiore, comodo apparentemente ed elegante, di moda specialmente nella gioventù che si avvia a studi scientifici, nei quali la certezza razionale diventa unico metro di verità; oppure la categoria dei negatori del nome, dell’idea, della realtà di Dio, sia con atteggiamento di semplice, ma cosciente rifiuto, e sono gli atei; sia con atteggiamento di ribellione, e sono gli antiteisti, i nemici dichiarati, nella teoria e nella pratica, di Dio.

Se cerchiamo un comune denominatore di queste sommarie categorie, possiamo forse identificarlo in una diversa e più o meno convinta sfiducia: l’impossibilità di conoscere Dio. Qualcuno è arrivato al punto di proclamare “la morte di Dio”; e forse, in alcuni, senza cattiva intenzione, perché questa negazione, dall’accento blasfemo e sacrilego, voleva riferirsi ai concetti falsi, incompleti, insostenibili di Dio, cioè agli idoli che tanto spesso gli uomini, in mentalità arretrate ed empiriche, in civiltà che chiamiamo pagane, in periodi storici di superstizioni superate, in espressioni filosofiche inaccettabili, propongono alla propria religiosità, o alla propria mentalità. In altri, questa divorante tentazione di sfiducia nella possibilità di conoscere Dio voleva essere un riconoscimento purtroppo agnostico della sua ineffabilità, della assoluta, e quindi irraggiungibile, sua trascendenza, della sua incomprensibilità; voleva essere quasi un atto di umiltà davanti al mistero infinito dell’essere divino. Ma più spesso, oggi, il modo di pensare non filosofico, ma esclusivamente scientifico, non rende facile all’uomo uscire dalla sfera sperimentale, e salire alla sfera della razionalità metafisica, e lo arresta alla conoscenza delle realtà che sembrano sole positive e utili a scopi tecnici, sociali, temporali; la mente umana si rassegna, anzi si compiace di ammettere questa impossibilità della conquista d’una vera conoscenza di Dio.

Avete mai fatto dell’alpinismo? Quattro giovanotti sono una sera intorno al fuoco, in un paese di montagna, e parlano delle cime dei monti che circondano il paesaggio. Naturalmente si pone l’audace progetto di una scalata; una scalata nuova, non mai da altri tentata, audacissima, e perciò attraentissima. Uno dice: si deve potere; l’altro aggiunge: certamente, si può; il terzo soggiunge: sì, ma occorre osservare alcune condizioni; il quarto domanda: quali? E la discussione procede, e termina in una comune risoluzione: la sfida alla vetta. L’alpinismo è fatto così. E così anche la teologia, la religione, la conquista della conoscenza di Dio.

Noi, figli della Chiesa, affermiamo: è possibile conoscere Dio. Per due vie maestre: la ragione e la fede. La sola ragione è forse una via valida per arrivare alla conoscenza di Dio? Valida, sì, anche se non del tutto sufficiente. Valida, purché ne siano rispettate le esigenze costitutive; cioè basta impiegarla come si deve. Questa è la prima condizione. E queste esigenze non sono poi così ardue da superare le forze normali del pensiero; esse non sono difformi da quelle del “senso comune” (cfr. Garrigou-Lagrange, Le sens commun, [1909]).
E si può anche osservare, di passaggio, che non è solo la scienza su Dio, la teodicea, a fare ricorso alle medesime esigenze della ragione, ma anche le scienze sperimentali e positive, le quali parimente in tanto sono intellegibili e autorevoli in quanto impiegano anch’esse, secondo la natura dei loro studi, i medesimi principi razionali, come la ragion d’essere, la finalità, la causalità, ecc.

Noi, figli della Chiesa, spesso accusati di oscurantismo, siamo invece ottimisti circa la capacità del pensiero umano a risolvere, in certa misura, s’intende, il suo massimo problema, quello della verità, e della verità suprema, che è Dio. Se non bastasse la testimonianza della sapienza dei secoli e dei grandi pensatori, quella della sacra Scrittura, e quella della nostra coscienza e della nostra esperienza, noi possiamo essere grati al concilio Vaticano i d’aver difeso la ragione umana e di averci dato, a questo proposito, un insegnamento sicuro, pieno di chiarezza, di conforto di nobiltà (cfr. Denzinger-Schönmetzer, 3016).

Ma bisogna fare attenzione ad una distinzione fondamentale in questa questione della conoscibilità di Dio. Un conto è affermare che Dio esiste, e un altro è dire chi egli sia. L’esistenza di Dio la possiamo conoscere con certezza, la natura invece di Dio ci è misteriosa, e ciò che noi possiamo intravedere di lui è per via di analogia, per via di negazione, per via di esaltazione di ciò che noi conosciamo delle cose che non sono Dio: il loro essere limitato ci serve per intuire qualche cosa di ciò che può essere detto delle sue perfezioni infinite; ed il magistero della Chiesa ci ammonisce che «fra il creatore e la creatura non si può notare tanto somiglianza, quanto sia piuttosto da notare la dissomiglianza». Così il concilio Lateranense iv (cfr. Denzinger-Schönmetzer, 806-532). Dio rimane mistero. Ma un mistero positivo, che attrae dalle nostre incipienti nozioni a sempre successive e interminabili investigazioni e scoperte. La nostra conoscenza di Dio è una finestra su la luce del cielo, un cielo infinito. Ma esigenza intrinseca del pensiero, principio assoluto dell’essere: egli è. «Io sono, egli si definisce, colui che sono» (Esodo 3, 14).

Che se alla testimonianza della ragione noi uniremo quella della fede, la nostra conoscenza di Dio diventerà meravigliosa. «Nessuno, dice il Vangelo, ha mai visto Dio, ma il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, egli ce lo ha manifestato» (Giovanni 1, 18). E avremo per specchio di Dio Padre il volto stesso di Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo: «Chi vede me, egli ci dirà, vede il Padre» (Giovanni 14, 9); Cristo, ancor più che maestro, è immagine; ce lo annuncia san Paolo: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15). Così che per conoscere Dio abbiamo una via, in cui tutte le altre — se pur altre vi sono — confluiscono, tutte si collaudano, si rettificano e si convalidano: egli è la via, la verità e la vita (Giovanni 14, 6).

Noi dobbiamo superare la tentazione, tanto forte ai nostri giorni, di ritenere impossibile una conoscenza di Dio, adeguata alla nostra maturità culturale, e rispondente ai nostri bisogni esistenziali e ai nostri doveri spirituali. Sarebbe pigrizia, sarebbe viltà, sarebbe cecità. Dobbiamo invece cercare. Cercare nel libro della creazione (Romani 1, 20); cercare nello studio della Parola di Dio; cercare alla scuola della Chiesa, madre e maestra; cercare nella profondità della propria coscienza… Cercare Dio, cercarlo sempre. Sappiate: egli è vicino (cfr. Isaia 55, 6). A voi la nostra esortatrice benedizione.

*****

La sua mano stringeva la mia
di Chiara Montini Matricardi
Ricordo con nostalgia i giorni sereni e spensierati a Melchtal, piccolo paese della Svizzera tedesca, non lontano dall’abbazia benedettina di Engelberg, dove eravamo soliti trascorrere un periodo di vacanza nel mese di agosto, dopo la festa della Madonna Assunta. Lo zio era particolarmente sensibile e attratto dalla spiritualità benedettina dell’ora et labora e presso questi monaci trovò sempre ospitalità premurosa e gentile. Pranzavamo insieme, ci faceva giocare, andavamo a visitare abbazie, eremi, ospizi alpini e con le cremagliere salivamo verso grandi vette innevate; a volte, percorrendo stretti e ripidi sentieri la sua mano stringeva la mia, dandomi sicurezza e forza che mi pare avvertire ancora oggi.

Gli incontri si diradarono anche a causa della salute precaria del papà, ma non le telefonate che i fratelli continuarono a scambiarsi. Durante la difficile e tormentata stesura dell’enciclica Humanae vitae lo zio chiese più volte un parere al fratello medico: mi pare ancora di rivedere il papà con la cornetta del telefono all’orecchio, discutere a lungo con don Battista.

In occasione della festa della natività della Madonna, l’8 settembre, tanto cara alla nostra famiglia, eravamo attesi a Castel Gandolfo. Qui si ricreava quella intimità antica e familiare tra lo zio e il papà. Il primo incontro era molto presto la mattina. Alle 7 partecipavamo alla messa celebrata dallo zio nella cappella privata. Uscivo da quella piccola cappella con una sensazione di grande pace, di gioia completa, di pienezza interiore.

Dopo la funzione, il papà faceva colazione con il fratello mentre noi raggiungevamo la cucina dove le carissime e sempre allegre suore di Maria Bambina ci offrivano il caffelatte con fette di torta paradiso. A quei tempi le donne, oltre a coprirsi sempre la testa con il velo, nero la mamma e bianco noi bambine, non erano ammesse alla tavola del Papa.

Durante i pochi giorni trascorsi a Castel Gandolfo, mentre gli adulti sedevano su delle poltroncine di vimini a conversare, noi potevamo liberamente scorrazzare per i giardini della villa pontificia alla scoperta di labirinti, laghetti, passaggi segreti, antiche rovine, scalando alberi o giocando a nascondino fino ad arrivare alle fattorie dove vi erano coltivazioni e animali di vario genere. Col passare degli anni, anche noi ci siamo sedute sulle poltroncine di vimini ad ascoltare lo zio e a rispondere alle sue domande.
Ricordo i due fratelli seduti vicini, così simili nei tratti e nei gesti, ascoltarsi reciprocamente con attenzione calma e profonda, passeggiare per i viali ombrosi dei giardini vaticani, parlare o lasciare che il silenzio li avvolgesse complice più di tante parole.

Rivedo la sua figura alta e sottile, i suoi occhi grigi, azzurri, chiari: lo sguardo non si limitava a guardarvi ma penetrava nei recessi del cuore; le sopracciglia accentuate, le labbra fini e delicate sceglievano con cura le parole, la fronte distesa e senza rughe: il suo viso emanava calma e pace profonda. Il suo passo era lieve e discreto ma teso in avanti ad accogliere con le braccia aperte il visitatore, qualunque esso fosse.

L’Osservatore Romano, 5-6 agosto 2017