Salute e bambini: mons. Viganò (SpC), “la malattia come punto di svolta verso un nuovo modo di accogliere la vita”

“La diagnosi di una crudele malattia potrebbe suonare come una sentenza inappellabile, eppure, scorrendo le pagine, si continua a percepire attraverso la filigrana narrativa la spontaneità, i sogni e i desideri tipici di un’età che fisiologicamente spinge lo sguardo oltre, verso il futuro. La patologia costringe a rivedere il tempo, lo spazio, i programmi, le priorità, gli interessi, le amicizie, i progetti, i sogni, tutto. Ogni attimo deve passare inesorabilmente il vaglio medico e sottostare alle scadenze delle visite, delle diagnosi, delle terapie e dei ricoveri. La vita non è più tua, come lo era fino a un attimo prima di ricevere quella notizia che stordisce e trasforma, non solo fisicamente. La malattia si presenta in tutta la sua spietata e sconcertante realtà, con esiti interiori sconvolgenti e una tangibile drammaticità”.

Lo scrive mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione (SpC) della Santa Sede, nella prefazione al libro “I ragazzi del Bambino Gesù” (Rizzoli) di Simona Ercolani che sarà presentato oggi insieme al documentario-progetto. Mons. Viganò delinea “un modo altro di leggere, interpretare e affrontare la sofferenza: la malattia come soglia. Tentiamo, così, di percorrere un sentiero inedito per attraversare i territori desolanti del tormento e dell’angoscia, cercando di non chiudere l’esperienza della malattia esclusivamente nei suoi aspetti di dolore e sofferenza, ma di affrontarla come un momento in cui si varca un ‘limite’. La malattia, dunque, diviene un attraversamento, un punto di svolta – sia per chi la vive nella propria carne, sia per chi è accanto al paziente e ne diviene testimone trepidante e silente – verso un nuovo modo di accogliere la vita e di imparare ad assaporarla come mai si era immaginato prima. La soglia diventa, perciò, un punto di non ritorno e, al contempo, un passaggio verso una nuova coscienza esistenziale, il luogo della contiguità e non della separazione nel rapporto con se stessi e nella relazione con l’altro. Un criterio evangelico, dunque, in questa prospettiva”

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